I bambini crescono in scatole sempre più grandi. La loro prima scatola è la pancia. Ian Mc Evan lo descrive sublimemente in Nutshell, un libro che racconta la vita al contrario, vista da un feto. Una vita buia, dove i suoni sono rimbombi e ogni carezza sul pancione fa venire la pelle d’oca. Carezza così intensa, seppur così lontana. Lui e loro, separati da una barriera potentissima. Barriera vitale, barriera necessaria, temporanea, barriera che cresce, si deforma e porta il peso della vita.
L’altra scatola è la mamma. Le sue mani, le sue braccia, i suoi capelli che fanno il solletico e il suo naso che si potrebbe mordere. Ti ricordi a tratti i tuoi primi giorni di vita. Quando eri coricato su di lei. Tu, così piccolo e morbido, con la pelle quasi trasparente. Senza denti e dagli occhi enormi. Occhi curiosi, eccitati e spaventati. E poi lei, così apprensiva, sorridente e improvvisamente preoccupata. Ti metteva l’orecchio sul petto per rassicurarsi che stessi respirando, le mancavi già solo quando si allontanava nella camera accanto e piangeva sotto la doccia pensando a quella notte in cui sei stato concepito. L’errore più bello della sua vita.
La scatola in cui crescono i bambini, così come la pancia delle loro madri, cresce, si allarga, diventa sempre più grande. La culla, il box, il letto, la cameretta. La scatola cresce veloce e, ad ogni millimetro che guadagna, i suoi confini diventano sempre meno definiti. Improvvisamente il coperchio della scatola scompare, al di sopra c’è solo più il cielo. Gli angoli della scatola diventano rotondi, poi impalpabili, poi rimangono solo un ricordo. Ormai la loro scatola è diventata il mondo.
E poi c’è la crisi, che oggi si chiama Coronavirus. A differenza della scatola-mondo, la crisi si vede benissimo. Anzi si sente, si respira, si percepisce negli occhi persi della gente e nei loro pensieri annebbiati. La crisi è forte, fortissima. Detta il ritmo, mette in pausa il tempo, ti strappa la libertà e ti lancia addosso capi di funi senza fine. Ed è così che arriva la quarantena a rimettere il coperchio a quella scatola che avevi quasi scordato, che nel frattempo era diventata così grande e pesante da non poter essere più spostata, colorata, bucata o intagliata. Non ci puoi più tamburellare sopra, non ti ci puoi nascondere, non la puoi usare come casco né come scudo a carnevale.
Quando il coperchio della scatola si chiude completamente la luce scompare. Rimani nuovamente al buio. Ma questa volta è diverso. Questa volta sai cosa c’è fuori. Sai cosa ti stai perdendo, percepisci un forte senso di privazione, ti manca quello che c’è al di là, quello che non puoi vedere. Per quanto? Per quanto rimarrai intrappolato in quella scatola? Di chiedere non hai il diritto, il tempo è ormai nelle mani di tutta l’umanità e intrappolato nel senso di responsabilità comune.
Eppure, c’è vita anche durante una crisi. C’era vita prima, ci sarà vita dopo e c’è anche durante. La vita non si ferma, non si comanda, non si mette in pausa né si accelera. La vita è testarda e irrefrenabile. Per 9 mesi ci sembra di poterla controllare, ma poi è lei che controlla noi. Non c’è momento giusto, non c’è luogo consono, non c’è silenzio. Quando la vita arriva è come un fiume in piena e a noi non resta che accoglierla e darle la sua prima scatola. E anche durante questa crisi, anche durante questo virus, la vita c’è.
Non ci si può abituare a qualcosa che non si ha mai vissuto. Non ci si può abituare a qualcosa che non si conosce, che non si ha mai visto, sentito, leccato. Non ci può mancare niente se non sappiamo cosa ci manca. Più difficile è invece dover tornare indietro, cancellare le proprie abitudini, annullare la propria quotidianità a comando. Il dilemma degli adulti. La scatola può essere salvezza o inferno, nascondiglio o prigione, della giusta misura o estremamente piccola.
Durante questa crisi a vincere sono i bambini e le loro piccole scatole. Non sanno cosa sia l’abitudine, cosa sia la normalità. Passano i giorni ad esplorare, cercare e imparare. Si meravigliano della loro scatola, ne scoprono le forme, la fattezza, le dimensioni. Se la loro scatola è sempre stata grande quanto l’abbraccio della loro mamma, non sentiranno il bisogno di avere o desiderare altro. Il paradosso di un mondo in quarantena: dove gli adulti si sentono ai domiciliari forzati, relegati tra quattro mura, e invece loro, i bambini, in quelle quattro mura si sentono salvi. E salvi rimarranno fino a quando diventeranno adulti e verranno intrappolati nello stesso dramma che ha imprigionato i loro genitori e che si ripete, immutato, nei secoli.
Dramma per il quale non vi è cura, non vi è antidoto. Dramma per il quale il ricordo diventa l’unica, dolce via di scampo. Un odore, un sapore, una montagna in lontananza. Basta poco per tornare con la mente in posti che appartengono solo al nostro passato, posti che non si possono fotografare, raccontare, disegnare. Sono posti nostri, che non vengono inglobati dal vortice della nostra quotidianità, che non mutano al passare delle stagioni, che non si stringono quando facciamo la dieta e che non si sgranano quando perdiamo gli occhiali.
E quindi cosa fare? Come sopravvivere ad un momento nel quale ci viene richiesto di metterci in pausa e rientrare nella scatola? Forse bisogna fare un processo di azzeramento. Tornare a rivivere la vita come se ogni giorno si dovessero fare i primi passi. Ricominciare ad apprendere, ricominciare a scoprire, ricominciare a sorprendersi per cose banali. Ricominciare a vedere, come fosse la prima volta, quello che c’è in noi e attorno a noi.
Tornare a scoprire la nostra casa, quegli angoli che ci rendono felici, quello spiraglio di sole che illumina il tavolo di prima mattina. Vedere come i riflessi del bicchiere colorato illuminano il libro che abbiamo dimenticato aperto dalla sera prima. Libro nel quale avevamo lasciato una matita, quando ci eravamo ripromessi di appuntarci tutte quelle frasi che non avremmo mai voluto dimenticare. Matita alla quale, però, non abbiamo mai fatto la punta.
Scoprire cosa c’è fuori dall’uscio, spalancare le finestre e rendersi conto che, anche nella scatola, possiamo far entrare la luce di cui abbiamo bisogno.
E poi c’è il condominio, strana bestia. Bestia informe, bestia che cambia e che azzanna. Bestia rumorosa, bestia vuota ad agosto e profumata a Natale. Bestia che brilla e sa di pulito il lunedì mattina. Bestia che ricorda ogni porta sbattuta, ogni ombrello gocciolante e ogni busta della spesa rotta sulle scale. È l’occasione per conoscere il vicino della porta accanto. Per sorridere alla signora Maria che fa la torta di mele ogni martedì e per bussare alla ragazza con le lentiggini del primo piano. “Ciao, avresti dello zucchero?”. In realtà sai che la torta, ormai, te la farà Maria.
E poi c’è la strada, quella che scorre di fronte casa. Quel dirimpettaio che vedi camminare ogni mattina in vestaglia e con la tazza di caffè in mano. Il fumo del camino, che diventa sempre più fitto nei mesi d’inverno, e che si attorciglia, danza con se stesso, diventa veloce e sempre più imponente quando il cielo si oscura. Sorge sulle case come una bandiera bianca, in segno di pace.
E poi spingi lo sguardo oltre i tetti delle case e vedi il quartiere. E poi ci sono gli incroci e quel semaforo che non diventa mai verde. E poi c’è la città e la sua periferia. Città che non ti rappresenta, nella quale ti sei sempre sentito smarrito, nullo, quasi soffocato. Solo anche se in compagnia. Una città afona ma pur sempre troppo rumorosa. Città che grida e si esprime con suoni incessanti di clacson.
E poi, in tutto ciò, c’è quell’angolino di paradiso. Angolino che nessuno conosce, con i muri sgarrupati, i mattoncini a vista e scritte sbiadite di innamorati di altri tempi. Dove due iniziali e un cuore bastavano a dichiarare l’amore più profondo. Quando non serviva dirlo a nessun altro se non a se stessi. In quell’angolino c’è una sola via, poco più di trenta metri in tutto tra una casa e l’altra. L’hai scoperta per caso una volta che ti eri perso tra i viali e i pensieri. Quella volta le gambe andavano da sole, ma la tua testa era ferma in un punto lontano. La sua bellezza è racchiusa nelle luci soffuse. Quella via è bella perché è vuota, perché sa di vecchio, di passato. Una via che ha avuto una vita a se stante. Ti ricorda una vita di campagna alla quale vorresti tornare, ma nella quale non sapresti cosa fare. Da una parte c’è la voglia di provarci. Una capra, un orto… Dall’altra c’è la paura di non avere abbastanza stimoli, di ritrovarti solo e scorbutico. Paura di dover tornare indietro e dire “mi sono sbagliato”.
In quella strada c’è sempre un cane, bianco e peloso. È vecchio ormai. Vive gli ultimi anni della sua vita coricato, ogni respiro è faticoso. Si alza solo per bere o per rubare qualche coccola. Sta di fronte all’uscio di una casa che, sebbene non sia casa sua, non gli negherà mai un sorriso e qualche osso.
Dalla finestra di sopra esce una signora, anch’essa vecchia. Col fazzoletto ricamato sul capo e il grembiule sporco di pomodoro. Sembra uscita da un’altra epoca. Quasi sovietica. Pensi a tua nonna. Tu la osservi, lei ti vede. Ha paura, indietreggia, chiude le serrande, ti fa sentire invadente. Però continua a guardarti da uno spiraglio aperto tra le tende della cucina. Sembra un’altra città, eppure non ti sei spostato di molto.
Suona la campana delle sei. Inizia a far buio. Ripercorri la strada al contrario con lo sguardo, arrotoli il rullino per quando avrai bisogno di riguardarlo e ti chiudi la finestra alle spalle. Ti ritrovi solo nella tua scatola. Tuttavia, questa volta c’è qualcosa di diverso. Nella tua scatola ti sei portato la vita, la tua e quella altrui.
Suona il campanello. Sul tappetino di fronte alla tua porta c’è un cestino e dentro una fetta di torta fumante. D’ora in poi, questa crisi sarà diversa.
Illustrazioni: Noel Gazzano
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