Una notte a Montefalco. Notte buia, senza stelle. Ormai da giorni il silenzio è assordante e il tempo sembra sospeso. L’aria è pulita e immobile, anch’essa in quarantena come le anime e i corpi dei cittadini del piccolo borgo umbro. Come ogni notte che si rispetti, le piazze sono deserte, le finestre serrate e le luci spente. Quasi tutte.
In una delle case di mattoni in fondo alla strada, inglobata nell’oscurità e avvolta da alberi senza fronde, si accendono due piccoli lumi bianchi. Sono gli occhi del signor Bruno che illuminano la notte.
Le quattro di mattina sono il mezzogiorno dei sonnambuli. Scandiscono la metà di una notte che può essere interminabile e allo stesso tempo troppo veloce per essere afferrata. Ma ad illuminare la notte non sono solo gli occhi di Bruno, ma anche il suo animo aitante, che vorrebbe ballare nonostante quell’anca di ferro e un equilibrio troppo precario. Uomo dalla volontà forte e dalle gambe deboli, che ancora sembrano non volersi staccare da quelle coperte di cotone pesante.
Evitando movimenti bruschi, Bruno volge lo guardo alla sua destra, verso il lato caldo e rumoroso del letto. Sua moglie Rosa, che ormai da trent’anni dorme a pancia in giù, russa beatamente. Il letto scricchiola ad ogni sua ispirazione, per poi vibrare dolcemente ad ogni espirazione. Il suono cadenzato, senza pausa, scandisce le sue notti come un diapason incessante.
Toltosi le coperte di dosso, Bruno mette un piede scalzo sul pavimento gelido e inizia a rotolarsi giù dal letto. Ogni piccolo movimento sembra rimbombare tra quelle mura di mattoni e il suo viso assume un’espressione contorta, quasi dolorosa, scalfito dalla paura di svegliare la sua amata. Si siede sul ciglio del materasso, si infila i suoi calzettoni gialli, quelli logorati sul tallone, e avvolto nell’oscurità tasta il pavimento in cerca delle pantofole. Trattenendo a fatica il respiro e senza strisciare i piedi si avvicina lentamente alla porta della camera. Getta l’ultimo sguardo verso Rosa e rapidamente, senza pensarci, esce furtivo.
Con il rumore cadenzato dell’orologio in sottofondo, Bruno entra in cucina e mette a scaldare una tazza di latte. Nel frattempo apre il mobiletto di legno scuro, quello senza chiave. Ne tira fuori la camicia a quadri e il paio di pantaloni dalle grandi tasche che aveva segretamente nascosto tra la pila di vecchi giornali. Si veste silenzioso e, dopo essersi leccato i baffi bianchi, si mette la coppola ed esce.
L’androne di casa è deserto, i suoi passi lenti rimbombano sugli scaloni di marmo e il cuore gli martella veloce nel petto. Nessuno può sentirlo, nessuno deve vederlo. Con attenzione certosina si chiude il portone di metallo alle spalle e, dopo aver controllato che nessuno si fosse accorto di lui, si immerge nell’oscurità. Città deserta e silenziosa. In lontananza si sentono gatti randagi banchettare tra i cassonetti. I lampioni tremolano incerti, quasi rispecchiando il suo animo impaurito. Un raggio di luce illumina la sua Apecar blu notte, lui la accarezza con gli occhi pieni di nostalgia e, claudicante, si allontana.
Dopo pochi metri svolta a destra e inizia ad incamminarsi su quel vecchio selciato che lo avrebbe separato sempre di più dalla città. Si sente un ladro, che furtivamente scappa con il suo bottino di angoscia e sensi di colpa. Passato il grande albero e il ponticello di legno la strada inizia a salire, e con lei, Bruno inizia a sudare. Si merita di soffrire, pensa, di fare fatica, come se quell’ascesa fosse la giusta ricompensa per poter valicare le porte di quel paradiso che presto l’avrebbe accolto. La luna piena lo segue senza togliergli mai gli occhi di dosso, senza giudicarlo, ma ricordandogli sempre di non essere solo. Poco dopo, Bruno si ferma per prendere fiato, si volta indietro e si mette ad osservare la città dormiente ai suoi piedi. Nessuno l’avrebbe potuto vedere da lì su, era salvo, con solo i suoi pensieri a poterlo giudicare.
La pendenza del selciato diventa più dolce e ben presto Bruno si trova fermo di fronte ad un piccolo portone di legno. Il suo paradiso. Da due anni a questa parte era solito lasciare il lucchetto sempre aperto, per permettere ai viaggiatori erranti di assaporare un po’ di quel benessere che si era costruito negli gli anni. Si muove nel buio, due passi a destra e uno a sinistra, sposta delle felci con le mani e accende una lanterna arrugginita. La vista si rischiara. I suoi occhi si riempiono della sua gioia più grande, il suo orto.
Un orto di abitudini e ricordi, un orto di emozioni forti e grandi dispiaceri, un orto che la quarantena gli ha imposto di dimenticare, anche solo per poco. Gli uomini si possono arrestare, ma la natura no. Lei non si ferma, non conosce pause né decelerazioni, continua a fare il suo corso, incosciente e disinteressata del mondo che la circonda.
Quanti ricordi, tutti raccolti in un solo posto. Bruno si siede sulla sdraio di tessuto colorato, appoggia i piedi scalzi sull’erba bagnata e si lascia trasportare dalla malinconica gioia del passato. Quella casa degli attrezzi l’aveva costruita con suo padre quando era ragazzino. Giocarci dentro era come essere trasportati in un modo parallelo, fatto di illusioni, speranze, incoscienza e curiosità. Volgendo lo sguardo verso il suo orto e i suoi alberi da frutto un sorriso gli pervade il volto. Si ricordò di quell’estate afosa di quarant’anni fa, quando, incredulo, ritrovò il suo primogenito dormiente tra le zucche e sua moglie, abbracciando un cocomero ancora sporco di terra, gli annunciò di essere nuovamente incinta.
Ma così come la natura, anche il tempo non conosce pausa alcuna. Un’alba arancione lo riporta alla realtà, strappandogli con forza quel poco di intimità illegale che era riuscito a rubare. Tempo maligno, schietto e irriverente, che non conosce scuse né giustificazioni, e che senza proferire parola ti sovrasta e avanza incessante.
Un ultimo respiro che diventa sospiro. Le colline si rischiarano e così anche i suoi pensieri. Il mattino lo richiama all’ordine, lo incalza a tornare all’ovile. Bruno dà un’occhiata veloce all’orologio, ha ancora un’ora prima che le prime sveglie inizino a scuotere la città. Prendendo lo slancio si alza dalla sdraio ormai sbiadita, spegne la lanterna e, mosso dalla solita agitazione delle sei di mattina, chiude il portoncino e si incammina verso casa.
Ad ogni passo la città si avvicina e il suo volto si incupisce. Si sente un traditore nei confronti dell’unica cosa che ha veramente bisogno di lui. La natura. Poco prima di abbandonare il selciato, tira fuori una busta, ci infila dei rovi, qualche bottiglia di plastica abbandonata e un po’ di terriccio, e dondolandola su e giù si avvia verso casa.
Un sacchetto che diventa capro espiatorio, poiché quando sua moglie gli chiederà dove è stato, lui potrà rispondere dicendo che era andato a buttare la spazzatura, indicando dal balcone il sacchetto sul marciapiede. “Hai nuovamente l’aria esausta Bruno, vatti a coricare”, dice Rosa, “dovrò iniziare a dormire sul divano della cucina per non svegliarti ogni notte per via del mio russare”. “No!”, risponde allarmato lui, “lo sai che non posso stare senza di te”. Lei sorride, gli mette la coperta sui piedi e gli spegne la luce. Lui sospira, pensando a come, anche questa volta, sia riuscito a mantenere il suo segreto al sicuro.
[Immagine in evidenza: Mariateresa Quercia. Qui in basso la versione per intero]
***Trovi altri racconti, riflessioni e contributi in quarantena cliccando qui: #BellezzaContagiosa