– di Sofia Sciascia
Ho fatto un sogno.
A dire il vero, probabilmente uno solo è quello che ricordo bene, ma ce ne sono stati molti altri.
Questo è un sogno su una storia, e questa è una storia di un’amicizia che ha davvero poco di ordinario… è una di quelle amicizie che salva, una di quelle amicizie che cura, ma soprattutto che dura. Attraverso gli anni, i drammi, ma anche attraverso tanta forza, ostinata forza che alla fine ti regala tutto l’amore del mondo, un tipo di amore che permette di andare avanti senza guardarsi indietro… e farsi troppo male.
E scusate se è poco, forse per qualcuno lo è.
Ad ogni modo, per noi, protagoniste di questa storia, è stato tutto.
Questa notte, dicevo, ho fatto un sogno. E nel sogno c’era la mia migliore amica.
Mi viene in mente una frase di uno dei miei film preferiti, C’era una volta in America:
«C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: Deborah esiste, è la fuori, esiste! E con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me?».
Ora penserete che tutto questo sia esageratamente romantico.
Forse avete ragione, ma in fin dei conti è così, di amore si parla.
Dicevo. Io ieri notte proprio non riuscivo a dormire.
In questi giorni sto abusando della televisione: film e serie tv, spesso violente. Ieri dopo ore così la mia testa era più pesante del solito, terreno fertile per l’ansia, e allora ho iniziato a sudare, il cuore palpitava.
È una storia che conosco fin troppo bene. Provo a dormire, poi mi sveglio perché manca il fiato.
Ma so già perché. «Non è perché hai l’asma, ma perché hai paura», mi dicevo anni fa. «Respira».
Anni fa, beh, a volte ritornano.
Ho paura in questi giorni, e anche se provo a non pensarci e mi riempio la testa di belle parole, bei pensieri, e mi riempio la giornata di bei gesti, belle canzoni, belle emozioni, belle intenzioni, ho paura.
Non mi lascia. E ho la sensazione che ci impegniamo tutti troppo per nasconderla. Io lo voglio urlare.
La notte è un po’ più dura del solito. Finalmente mi addormento, ma vedo solo immagini confuse, brutte, senza senso.
Sangue, vendette, vecchie case, pugni. Lampadari rotti. Ricordi. Lui che mi urla contro, stavolta è finita per sempre. Separazioni, traslochi… tanti, troppi. Urla.
Mi sveglio, mi riaddormento, sudo, mi alzo, mi riaddormento. Sono esausta.
Ma passiamo alla parte bella.
All’improvviso, salvezza. Mi si prospetta davanti una città: la conosco, è la mia. Una voce delicata.
«Tu non devi credere che si possa smettere di cercarla, la città invisibile».
Ecco che nel sogno compare la mia migliore amica, Desirèe. Cita Calvino. Parliamo spesso di libri, io e lei.
Come per Italo, anche la nostra città è «discontinua nello spazio e nel tempo. Ora più rada, ora più densa».
Potrebbe essere tranquillamente un pomeriggio qualunque degli anni liceali. Soprattutto perché sono con lei, e nelle vene ho un ardore che conosco.
Siamo alla villa comunale, c’è un viavai di gente, ragazzi come noi. Siamo su delle panchine, circondate dagli alberi, imponenti. Mi piace questa parte della città: ci andavamo sempre insieme, perché è l’unica zona in cui c’è tanto verde. E poi è bello perdersi con una bottiglia di vino, e parlare. Semplicemente. Non abbiamo fatto altro, per anni. (…)
Le persone ci passano accanto come schegge impazzite, senza paura di sfiorarsi.
Sono felice, siamo finalmente libere. Tutto è tornato come prima. Mi sento come nel presente, ma con un piede nel passato. Sono felice (?).
La mia amica è di fronte a me, siamo con le gambe incrociate. Ridiamo. Lei ha il telefono in mano, c’è musica in sottofondo. «Non ti ricordi com’era quella frase?», mi chiede. Mi sforzo di ricordare.
Facciamo delle ricerche con i cellulari, dobbiamo sforzarci di ricordare quella frase.
C’è confusione, troppa gente. Ci alziamo a scendiamo verso la strada dal parco. Fa freddo, è inverno.
Forse nevica.
Un sorso di vino dalla bottiglia in borsa.
Lei mi guida, mi chiede di andare verso il nostro posto. Forse lì ricorderemo.
Possiamo fare delle foto al nostro posto, come piace a noi.
«E poi solo noi conosciamo l’angolazione giusta, vero?», Andiamo.
Il nostro posto è qui. Un lago, piccolo, modesto, circondato dal verde. Un ponticello di legno sulla sinistra.
Scalinate larghe di fronte. Ci sediamo, siamo sole, finalmente. (…)
Non abbiamo fatto altro, per anni, noi sole. Il nostro posto, teatro di confessioni, locus amoenus privato.
Per noi e solo per noi c’è profumo di ginestra. O fiore del deserto.
Desirèe ora ha gli occhi del colore del miele. I capelli neri le sfiorano il viso bianco come ceramica.
Una statua del Dio Nettuno al centro ci osserva, imponente, terribile, meravigliosa.
Ci guardiamo, lei mi abbraccia.
«Non è che non mi piace la gente… è che spesso parlare mi stanca».
Cade qualche fiocco di neve. La mente è bianca, vergine. Ora respiro, è piena l’aria.
Mi accendo una sigaretta. La guardo e sorrido, conosco il motivo.
Ora ricordo la frase, so perché ci tenesse tanto. È di Simone De Beauvoir, una delle sue scrittrici preferite.
Chiudo gli occhi e la dico. Le tengo la mano.
«E non aveva neanche bisogno di pronunciarli per sentire la gioia salirgli nel petto. Gli bastava dirsi: non sarò più qui; sarò altrove. Altrove: è una parola ancora più bella del più bello dei nomi».
Immagine in evidenza: Antonino Diano
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