No, non è come morire, è come sparire.
Dissolversi, ma con la lucida consapevolezza di questo svanire.
La coscienza, ciò che noi chiamiamo così, resta.
Siamo paradossi, viviamo nella nostra coscienza, mai al di fuori di essa; viviamo con la consapevolezza dello stare al mondo, le nostre esistenze sono macchiate, tutte, da un vizio di forma, un peccato originario che nulla ha a che fare con un disegno divino: ad ogni istante, la paralizzante scoperta del pensiero.
Non dovrei esistere, come tutti. È solo che io lo so, e voi?
Sto divagando. Questi incontri settimanali dovrebbero lasciare sulla scia qualcosa di positivo, un senso di completezza, una visione conclusa. Essere motivazionali, in qualche modo. Sarebbe però finzione, non credete?
Allora lasciatemi semplicemente – essere. Non cerco salvezza né comprensione, non cerco una pacca sulla spalla né sono disposta a darla. Cerco verità.
Non so se il mondo – le cose – mi tocchino troppo o troppo poco. Come sento la vita sarà sempre un’incognita. So solo che spesso le cose mi scivolano di dosso, sgretolandosi, come pelle morta che cade e di cui non sento nemmeno il rumore che fa quando si stacca. Semplicemente non sento.
A volte, invece, basta il rumore dello scroscio dell’acqua sotto la doccia, un pavimento bianco o l’odore della pioggia che impregna il fango per strada – quell’odore umido e primitivo di terra sulla quale un tempo lontanissimo ci sdraiavamo sporchi di sangue, sudore, foresta, a guardare le stelle e inventare storie – per gettarmi addosso un terrore assoluto, bianco, definitivo. Come oggi.
Allora, mi dico, forse sono semplicemente le cose sbagliate – se vale come categoria – a toccarmi. Le cose insensate per i più, percepibili solo da chi fluttua in altri universi tendendo sempre l’orecchio alla tragica melodia che permea la realtà, un pianto secolare di un creato destinato al dolore. Le cose non dovrebbero far questo, diceva Sartre. Sforzandomi d’esser razionale e rimanere aggrappata alla realtà, arrivo quasi a rendermene conto. Il punto è che non appena raggiunta l’ombra del raziocinio, esso mi sfugge, s’allontana di nuovo, e ancora, e ancora, in una continua lotta d’inseguimenti per afferrare un senso, forse, inafferrabile.
Oppure… oppure è in questi squarci che s’annida la verità e la razionalità è un vizio abominevole, un vizio ‘positivo’, banalmente positivo, utile alla sopravvivenza della specie umana. Forse la realtà è Altrove. Forse la verità è Altro. Forse aveva ragione Sartre. Forse avevano ragione tutti i pazzi, i folli, i maledetti, i criminali, i vagabondi del mondo. Forse ho ragione persino io. E se le ‘cose’ piangono, se soffro per il loro pianto, è proprio perché così dovrebbe essere.
Dovremmo esser capaci di sentire il dolore del cielo, di un albero, di un sasso, d’una ghianda che si spacca sulla grondaia con un rumore sordo, di piccolo cranio frantumato. Che differenza c’è, in fondo? Non capisco, non capisco. Non capirò mai. Non avrò mai la pace, probabilmente. Ma preferirò sempre – sempre – questo a qualunque forma di verità a buon mercato. Non rassicuratemi, ma ditemi che ho ragione, ditemi che non c’è scampo, e io allora – probabilmente – sorriderò.
Sono nata sotto il segno della Logica Congiuntiva: il serpente che divora se stesso, l’altra faccia della Luna, il dolore che porta all’orgasmo tramutandosi in miele, il buio che si fa luce. Se siete interi e composti, se non scorgete la bellezza del dissonante, la verità e la giustizia in tutto ciò che è straziato e fatto a brani, come ha scritto Calvino… statemi lontani.
Vi prego.
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
[Continua ogni venerdì su Il diario della depressa, sempre nella categoria ConsapevolMente]