Quando ero piccola e andavo a scuola dovevo sempre aspettare che mia sorella fosse pronta.
Mia sorella non era mai pronta e io facevo sempre tardi. Odiavo aspettare e per distrarmi vedevo un cartone alla televisione con un’ape di cui non ricordo il nome, ma il cartone non mi piaceva perché tutto quello a cui riuscivo a pensare era: “Sto facendo tardi”.
Poi, quando lei finalmente era pronta, dovevamo aspettare l’autobus e io mi innervosivo e a volte mi veniva il panico.
Il panico non è bravo ad aspettare, perché mentre aspetta pensa a tante cose e non ne può fare nessuna e allora pensa al tempo che sta perdendo e che non riavrà mai indietro.
Quando andavo al liceo e mi ritrovavo ad aspettare, si creava un corto circuito nella mia testa che mi faceva stritolare le maniche dei vestiti e venire voglia di scappare via.
Nel tempo ho cercato di porre rimedio a questo problema, ed uno dei sistemi che ho adottato è stato quello di portarmi appresso borse piene di cose. Così, almeno, se dovevo aspettare, avevo tanti modi per tenere occupato il panico e per far fronte ad ogni evenienza nel caso l’attesa fosse durata di più e io avessi dovuto cambiare i miei programmi.
Ecco alcuni esempi di cose che possono stare nella borsa: un libro, un altro libro (nel caso mi stufassi del primo e volessi cambiare), un terzo libro (nel caso il secondo si rivelasse tremendamente brutto o tremendamente triste), un quaderno, penne, l’agenda che tanto non guardo ma che proprio quel giorno potrebbe rivelarsi fondamentale, diversi tipi di cibo perché se porto un solo cibo e non mi va poi finisce che non mangio nulla (vedi il panico per il cibo), acqua, cambi di vestiti.
Il modo in cui il mio panico affronta le attese è fare finta che non siano attese ma tempo in cui fare delle cose. Spesso sono cose scomode, perché leggere in piedi alla fermata dell’autobus non è esattamente come leggere a casa sdraiata sul letto, ma il mio panico non ci pensa.
In tutte le varie attese lui si nasconde dietro ad altre cose.
Ci sono tante diverse attese. Invece di aspettare l’autobus, si può aspettare il treno. A novembre io e A siamo andati a Firenze e al ritorno il nostro treno aveva due ore di ritardo. Siamo stati seduti ad un tavolino striminzito bevendo una spremuta e studiando, con un signore anziano seduto davanti che ci fissava e di tanto in tanto diceva qualcosa. Io mi ripetevo: “Va tutto molto bene, il ritardo non mi dà affatto fastidio, sto studiando benissimo”, mentre ero seduta su un divanetto scomodissimo, il mio zaino veniva urtato di continuo, ero circondata dagli annunci dei ritardi e avevo di fronte lo sguardo fisso del signore.
Le attese degli aerei sono qualcosa alla quale mi sono molto abituata prima di rifiutarmi di prenderli per la crisi climatica. Quando vivevo a Londra tornavo sempre a Roma (per il panico della lontananza, di cui devo ancora parlare). Avevo talmente tanta paura di perdere l’aereo che arrivavo all’aeroporto ore prima. Una volta ho passato un intero pomeriggio nella sala d’attesa. Avevo tutti i libri da studiare per il mio master, un tè, frutta e barrette vegane, e quando sono dovuta partire mi è dispiaciuto un po’.
Negli ultimi mesi mi è capitato spesso di pensare all’attesa.
Quando c’era il lockdown io e il mio panico aspettavamo, come tutti, di uscire fuori. Poi siamo usciti fuori e volevamo solo tornare dentro.
Oppure aspettavamo di poter vedere le persone, poi le abbiamo viste e ci siamo accorti di non sapere più come si parla dal vivo e non al telefono.
Mi capita anche di sentire gli altri parlare di attese.
Una mia amica che è al settimo mese di gravidanza l’altro giorno mi ha detto: io a volte vorrei che nascesse prima perché mi sono un po’ stufata di aspettare. Vorrei vedere come è.
Un’altra mia amica, che in questo momento è in attesa di tantissime cose, mi ha scritto: è difficilissima l’attesa, però ha tanto valore.
Io ci ho riflettuto, su questa cosa del valore. Credo che sia così, in realtà. Che l’attesa serva a tante cose.
Purtroppo però questo al mio panico non basta. Lui le attese non riesce proprio a farsele piacere . Quando il panico incontra l’attesa io torno ad essere la ragazzina che stritola le maniche e che vuole solo scappare.
E che poi mentre scappa si dice che forse era meglio aspettare.
Oppure scappa, e scopre che anche mentre scappa in realtà sta aspettando. Perché non è che si arriva nel momento in cui si inizia a scappare, nel mezzo si deve continuare a scappare.
Ed è pure faticoso.
[Illustrazione: Joel Louzado]
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