Amari, sigarette, liquirizia sulla lingua e le 2 di notte a Roma d’ottobre che sembra primavera e io non capisco più niente. Stringo il bicchiere ghiacciato nella mano, il vetro riflette le luci del vicolo e pezzi di me sparsi come frammenti implosi. Un altro tiro, sento il fumo caldo solleticarmi le narici.
La mia amica sorride. Stasera è bellissima. Lo è sempre stata, ma oggi di più. O forse sono i miei occhi ad essere più disponibili ad accogliere tutta la bellezza che mi circonda, qui ed ora, adesso, senza filtri grigi, senza diavoli, senza merda. Mi parla a raffica, si tocca i capelli e ogni tanto mi fa una di quelle espressioni buffe che adoro. La guardo annuendo, divertita. Mi isolo per un momento nei miei pensieri, mentre il pub lentamente si dissolve e le parole diventano un sottofondo ovattato ma accogliente, terreno fertile per i miei giri mentali.
Mi vedo da fuori, in questo vicolo del Pigneto pieno di gente e rumore, seduta semplicemente contro un muro ad ascoltare le storie della mia migliore amica. Sono calma. Sono in pace. Lo sono per davvero stasera.
Come ho fatto? Come ci sono riuscita?, mi dico. Non ci penso sempre, ma quando capita mi blocco nell’incredulità e una strana euforia mi prende, leggera e fugace come il luccichio di una stella filante negli occhi. Anche adesso questa calma, per quanto ancora rapsodica, questo esserci, questo so-stare nell’attimo che vivo e nel mondo che abito, senza perdermi altrove, mi appaiono una conquista impensabile. Assurda. Inaudita.
Faccio fatica ad accettarlo ancora, dico davvero. Stasera però no. Stasera questa consapevolezza mi è piombata addosso come una bimba capricciosa che vuole giocare per forza e mi scompiglia le trecce.
Mi guardo attorno per capire se la gente in strada condivide questo mio pensiero. Vorrei raccontare ad ognuno di loro di quando il tempo scorreva come una cascata nera nel cranio o di quando il tempo non c’era e basta. Forse non capirebbero, sicuramente no. Non capirebbero questa mia gioia, qui ed ora, non capirebbero perché sorrido appoggiata contro lo sporco di questo vicolo come se fosse il momento più bello e importante della mia vita.
Io ricordo com’era. Lo ricordo bene.
Sono partita con il desiderio di non essere nessuno, perché ero stata troppo, tutto, per tutti.
Sono arrivata in questa città con l’unico obiettivo di confondermi con le sue notti e le sue maree di persone, tutte diverse, tutte vicine e distanti, tutte 0 per me, ed io per loro. Volevo essere questo, uno zero: sparire, liquefarmi in uno scintillio appena percepito.
Roma era la sfrenatezza e il caos, l’azzeramento e la ripartenza, talvolta l’autodistruzione. Ora è docile scoperta, serena consapevolezza, riappacificazione tra me e l’altra me, tra la me che temo e quella che strappo ai giorni passati e futuri.
Roma era il dolore, la solitudine imposta, pretesa con rabbia, la libertà «che mi ha massacrato», come scriveva Pasolini. Oggi è la quiete increspata, la luce opaca e sempre un po’ traballante della rinascita, fioca ma vera, viva, come l’arancio di un lampione nella nebbia d’un vicolo.
Roma era la bellezza terapeutica, l’infinito stupore e allo stesso tempo un campo minato di destini abortiti, che forse alla fine meglio così e chi l’avrebbe mai detto, mi dico ora.
Ho goduto delle sue «sette o settantasette meraviglie», ma ciò che resta, ciò che conta, è la risposta che ha dato alla mia domanda, l’unica davvero importante.
Roma è quel posto dentro che mi ha insegnato a far morire ciò che deve morire e a lasciar andare le cose che sono morte.
Roma era l’inizio di qualcosa che finiva.
Oggi è l’inizio.
E basta.
E riesco ad accettarlo persino, a lasciarmi andare all’idea che qualcosa di stupefacente e commovente, come le sue Chiese e le sue Fontane, possa davvero iniziare ad esistere anche per me.
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
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Immagine in evidenza by Shaza Wajjokh