«Quando ero giovane io, nel mio paesino una ragazza non poteva andare al bar da sola. Eri vista male, considerata una facile. Se fosse successo qualcosa, avrebbero tutti detto “è stata colpa sua”». Così qualche giorno fa raccontava mia madre, mentre eravamo a tavola a sorseggiare caffè. «Quando mi sono trasferita, ci ho messo tanto tempo ad abituarmi all’idea che potevo entrare da sola in un bar e ordinare qualcosa». Mia sorella, 15 anni, ha strabuzzato gli occhi accigliata e indignata. È ancora una ragazzina, ma ha già tanti strumenti e consapevolezze che io alla sua età non potevo nemmeno immaginare. Questo mi rende fiera – e anche più serena, da sorella maggiore. Davanti alle parole di mia madre, io invece ho annuito, severa. Con quella tristezza in viso di chi conosce perfettamente quel “mondo lì”, non solo grazie ai racconti di altre donne, ma anche perché è nata e cresciuta a cavallo di importanti trasformazioni culturali e sociali e ne ha vissuto mutazioni, liberazioni, conflitti.
Eccoci allora, tre donne al tavolo a sorseggiare caffè. Tre donne di generazioni diverse, con esperienze e background culturali completamente diversi. Mia madre ha 59 anni ed è nata in un piccolo paesino del Sud Italia. È cresciuta in un contesto in cui il matrimonio riparatore era ancora realtà, in cui le donne erano fortemente ostacolate e private di diritto all’autodeterminazione ed emancipazione, in cui la famiglia patriarcale era il modello di riferimento, l’unico. Io di anni ne ho 28, e ho dovuto aspettare i miei 23 per sentir parlare davvero di lotte delle donne, femminismi, cultura dello stupro, consenso. Non erano certo argomenti di facile accesso, come oggi. Non erano “mainstream“, diciamo così. Quando ci ripenso mi arrabbio, divento feroce. Mi prende un’ira dallo stomaco, come se avessi vissuto gran parte della mia vita senza dimensione storica, senza strumenti per comprendere davvero me e la realtà. E cos’è un individuo senza storia? Un essere incapace di collocarsi nel mondo, senza memoria, senza passato. Senza eredità.
Mi hanno privato della mia storia, e io me la sono ripresa, dico spesso. Lo dico ad alta voce, orgogliosa e un po’ rabbiosa, due peccati che alle donne non si perdonano.
Da donna, non credevo di poter avere un’eredità alle mie spalle. Ho vissuto per anni accettando passivamente quello che vedevo attorno a me, accumulando icone e modelli maschili nei miei diari e quaderni, plasmando la mia identità su di loro, senza chiedermi come mai non trovassi nemmeno una donna a parlarmi dal passato, a darmi un suggerimento, una scintilla, e introiettando tanta di quella misoginia… Per anni ho creduto che le donne avessero cominciato davvero ad esistere e fare quello che io sognavo di fare da un certo momento in poi, e solo di recente, contribuendo in fondo così poco alla storia dell’umanità. Se non silenziosamente e dimessamente, affiancando mariti e compagni, restando un po’ nell’ombra, magari anche un po’ subdolamente. Ecco, questa era l’altra visione che avevo: donne tessitrici di trame, aracnidi sapienti e abili manipolatrici.
La rabbia è spazzata via tutte le volte che osservo mia sorella nella meraviglia e difficoltà dei suoi 15 anni parlare di “donne” non come entità senza corpo e storia, ma con una consapevolezza che mi commuove, che sa collocarsi e delineare reti di relazioni e poteri, intrecci di resistenze, negazioni, rivendicazioni. Quando la guardo, nonostante a volte così non sembra, mi rendo conto dei giganteschi passi in avanti e, anche solo per un momento, tiro un respiro di sollievo. Così, quando ci ritroviamo tutte e tre insieme – io, mia madre e mia sorella – nonostante le nostre grandi differenze, vedo anche quel filo che ci tiene unite e ci accomuna, nonostante tutto. Questo filo si è riattivato quel giorno, mentre eravamo al tavolo a bere caffè, dicevo, e mia madre ha commentato il video in cui Beppe Grillo, per difendere il figlio accusato di stupro, inveisce contro la ragazza che ha denunciato. «Queste cose si sentivano anche all’epoca mia, certo che non è cambiato nulla», ha detto scoraggiata. Invece no, ho detto io. La differenza è che ora siamo qui a parlarne, perché sappiamo parlarne.
Abbiamo i linguaggi. Abbiamo gli strumenti. E questo cambia tutto.
Quella mentalità non è ancora definitivamente sconfitta, certo. Basti pensare che la stessa Loredana Rotondo, regista del celebre docufilm Processo per stupro, si è espressa a riguardo notando come la retorica di Grillo, e altri come lui, sembra ricalcare perfettamente la mentalità che all’epoca – e siamo a fine anni ’70 – trasformava un processo per violenza sessuale in un processo alla vittima, in un ribaltamento meschino e anticostituzionale, frutto di una cultura misogina. Eppure c’è una nota “positiva” in tutto questo: dopo 40 anni circa, si rigurgitano ancora le stesse retoriche violente. In quella monotona e rabbiosa ripetizione, in quelle invettive machiste, c’è tutta la paura di un ordine che sta crollando, c’è tutta l’incapacità di accettare un mondo che per fortuna, pur mantenendo conflitti e resistenze, è cambiato e continua a cambiare. Un mondo che non ci hanno concesso, ma che abbiamo conquistato a caro prezzo e che ancora oggi lavoriamo instancabilmente per costruire.
È un mondo che vedo procedere dalla storia di mia madre, che passa da me e arriva a mia sorella. Ed è una storia che stilla amarezza e rabbia per ciò che ha da raccontare, ma anche coraggio, forza, gioia, astuzia. Questa è una mia conquista recente, vedere anche l’altra parte della storia e dell’eredità per non cedere a quella bugia della mia adolescenza, quella che mi faceva pensare “noi donne esistiamo come soggetti da poco, pochissimo”. Non è vero. Ho abbandonato finalmente quella visione esclusivamente vittimistica delle donne “prima di me”, a partire da quelle della mia famiglia. Forse era anche questo un insopportabile lascito patriarcale e paternalista? Credo di sì. Quelle donne hanno praticato resistenza e sorellanza, scaltre e forti hanno trovato formule e rimedi per cavarsela, a loro modo, per condurre le loro vite in contesti che io non riesco nemmeno a immaginare. Sono state equilibriste, alchimiste, streghe, guerriere, strateghe, sante, indovine. Sono delle sopravvissute, tutte loro. Hanno combattuto, hanno fatto il possibile e anche di più. Ci hanno ispirato a ricordarle e poi superarle, tenendo a mente ciò che è stato fino a soli 20, 30, 50 anni fa.
Io oggi me lo ricordo sempre quando parlo con mia madre e con mia sorella, il mio prima e il mio dopo. Mi ricordano loro da dove veniamo e verso dove, si spera, stiamo andando. Mia madre non si è mai dichiarata femminista, eppure lo è stata sempre, ogni giorno della sua vita. Mia sorella inizia a definirsi tale, e io la vedo muovere i primi passi in questo mondo meraviglioso e spaventoso con ansia ma anche immensa fiducia. Siamo insegnanti inconsapevoli l’una dell’altra. Da entrambe ho imparato e imparo ogni giorno a ricollocarmi io stessa in quel mondo e a sentirmi quella storia tra le mani, sulla pelle, nel sangue.
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In Italia…
Nel 1960 viene sancita la parità salariale tra uomini e donne. Fino a questo stesso anno, le donne non possono accedere alle carriere prefettizie e diplomatiche.
Fino al 1963 alle donne è negato l’accesso a svariate cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la magistratura. Fino al 1999 alle donne non è consentito intraprendere una carriera militare.
Fino al 1975, il diritto di famiglia riconosce per legge la “potestà maritale”, ovvero il diritto del marito ad essere il capo della moglie e dei figli. Fino a questo anno, la donna è considerata per legge proprietà del marito. Il nuovo Codice per il diritto di famiglia garantisce per la prima volta parità legale fra i coniugi e possibilità della comunione dei beni.
Nel 1977 si prevede la parità di trattamento fra uomo e donna sul posto di lavoro.
Nel 1978 viene riconosciuto il diritto all’aborto.
Il matrimonio riparatore e il delitto d’onore sono stati aboliti solo nel 1981.
Solo nel 1996 lo stupro è diventato un reato contro la persona e non contro la morale pubblica e il buon costume.
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