Da quanto tempo non scrivo in questa sezione del blog, bucando l’appuntamento del venerdì? Troppo, lo so. L’ironia di avere una rubrica in cui racconto cosa significa convivere con depressione e altri simpatici demoni è che prendermi la libertà di sparire dai radar per giorni – o settimane, mesi se è proprio nera – senza sentirmi in colpa è la prima e più importante premessa da fare. Questo diario vive così, di altalene estenuanti, spirali impazzite e mutismi siderali. E spero accetterete queste condizioni, in cambio di un po’ di autenticità e qualche parola messa in ordine, a volte di getto, altre con grande fatica.
Prima scrivevo quando stavo male. Ora non ci riesco più. Ora scrivo quando mi sveglio e sento un po’ meno quel vuoto micidiale tra le tempie, allora capisco che questa sarà una giornata tutto sommato ok. Oppure scrivo quando mi sono rimpinzata di qualche emozione, quando sono almeno un po’ piena di qualcosa che funzioni da carburante per desideri e fantasie.
Anche parlare di depressione e altri demoni costa uno sforzo creativo e immaginifico non indifferente. Altro aspetto ironico. Per parlare di una cosa così brutta mi serve fare il pieno di vita, prima. Mi serve provare qualcosa. E di questi tempi pandemici – nullasognanti e nulladesideranti (come scrive in una vignetta Percy Bertolini) – è difficile. Se non ho niente da desiderare, niente a cui tendere, dei demoni non so parlare, perché mi sembra inutile, perché anche loro in fondo si ammutoliscono e non sanno più che farci con me, né io con loro. Che farci del nostro dolore.
Che farci di questo dolore se non posso addolcirlo, se non posso sfidarlo a mutare in altro tra le mani di qualcuno o tra le crepe sui sanpietrini illuminati dai lampioni, lucidi che quasi mi ci specchio. Oppure ho bevuto troppo? Sì sarà sicuramente questo. Ma la primavere mi soffia tra i capelli e ora non sto pensando a nulla non sto pensando a nulla non sto pensando non stavo pensando non stavo pensando a nulla. A nulla. Ero solo lì fuori, quel fuori da me che è poi un tornare dentro, ma tornarci meglio. Quel fuori da me che non esiste più e che non riesco a trovare quando il mondo è troppo sveglio.
«Quello che manca è la notte, la trasgressione, l’altra faccia», ha detto una persona che conosco un po’ di tempo fa, trovando le parole perfette per esprimere come mi sento ogni volta che riesco a strappare brandelli di desiderio a giornate che sembrano trascorrere tutte uguali, nel mutismo di ciò a cui ci stiamo abituando, a cui mi sto abituando. No, abituando non è il verbo giusto. Piegando, forse? Accettando? No, non lo accetto ancora, ma non so come manifestarlo, non so come riprendermeli quei momenti a metà, spezzati prima di potersi realizzare davvero.
La notte, il buio, la pelle di altri. Il rumore delle fontane di Roma illuminate dalla luna, quando sembrano fatte di perle e argento. Un vicolo scoperto per caso, mentre inciampi e ti chiedi quanti notturni dovrai ancora prendere per tornare a casa. Occhi sconosciuti che s’incollano ai tuoi e non sai perché, sai solo che vorresti rubarli per qualche ora.
Non fare programmi, non sapere niente, vivere qui ed ora, vivere tutto e viverlo forte, perché la notte sembra una dimensione altra in cui tutto diventa possibile e più vero. Perché sembra non finire mai ma sai che ad un certo punto invece finirà e allora fatti incantare, fatti divorare, per favore. In questo spegnersi del desiderio che mi condanna al giorno e a me stessa – sempre me stessa, solo me stessa, nient’altro che me stessa – la mia testa avanza a spirali, ma sente solo il vuoto di quello che le è stato tolto, di quello che manca per evitare lo schianto.
Mi sembra assurdo anche il dover giustificare questo sentire, umano umanissimo. Dover giustificare il malessere e il nulla, la depressione in cui siamo lasciatə ad annaspare, la fatica di dover trovare ogni volta qualcosa a cui aggrapparsi e sapere che scivolerà via, ancor prima di poterla vivere a pieno. In quantə ci sentiamo così e non riusciamo a dirlo, perché ci fa sentire ingratə e superficialə. Allora stiamo zittə, ma continuiamo a non saper rispondere davvero alla domanda come stai? Non sappiamo più che dire quando ce lo chiedono.
Io non so più che dire. Non so più che dire perché non ho tempo per capirlo, non ho tempo per scordarmi di ciò che odio e mi fa male, non sento le emozioni perché sono sempre con me, non ho mai tempo per dimenticarle e allora io sparisco, non ci sono più. Ci sono solo loro. Ma non è una cosa bella.
Ho pensato a tutto questo quando qualche sera fa ho riassaggiato un po’ di leggerezza, un po’ di fuori-da-me, per poi lasciarla scivolare via di nuovo. Però per qualche ora sono stata un po’ felice. No, non è la parola corretta. Oppure ho solo paura di scriverla? Sì, sono stata felice per un po’. Senza sentirmi in colpa per questo.
Allora ho acceso il pc e ho scritto tutto questo, e mentre ricontrollo la bozza in sottofondo La Rappresentante di Lista canta:
«Religiosamente
Voglio che mi torni in testa
L’odore
Quella festa
Quelle tue parole accese a cui credevo intensamente
Tutto mi sembra normale
Contro il tempo
Stanotte io vorrei provare quella gioia».
…Stanotte io vorrei provare quella goia.
[Immagine in evidenza di Shaza Wajjokh]
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