Qualche settimana fa una mia amica mi ha detto: “A volte mi dimentico della situazione in cui stiamo”.
Io ho realizzato che non mi dico mai questa cosa. Semplicemente, perché non mi dico mai che c’è qualche cosa che dovrei ricordare. Ma spesso mi accorgo di non stare tanto bene e non capisco il perché.
Allora mi è rivenuto in mente un momento, tanti anni fa, io avrò fatto le medie, in cui mia madre stava parlando con una vicina di casa. E la vicina di casa le diceva: “Per fortuna che adesso ricomincia la scuola”, così la figlia poteva vedere i suoi amici e distrarsi un po’, perché il padre era stato male e quindi la situazione era un po’ difficile. E con gli amici sarebbe stata meglio. Io avevo pensato che fosse un’affermazione debole, io non avrei avuto bisogno degli amici, io me la sarei cavata da sola. Io me la cavavo sempre da sola e non avevo mai bisogno di nessuno.
Salvo poi ritrovarmi disperata dentro alla mia camera a combattere con i pensieri della mia testa e la luce della sera e sentirmi in trappola.
E da tutti quei pensieri, da quelle luci, da quegli incastri sbagliati mi sarei dovuta tirare sempre fuori con la forza della mia mente.
Mi dicevo che la mia mente poteva risolvere tutto e che quindi doveva farlo.
A volte mi ritrovo a farlo ancora. A pensare alla mia mente come ad un supereroe. A me stessa come ad una supereroina.
A pensare che sia io a poter imporre alla mia testa e al mio corpo di non provare difficoltà. Di non provare fastidio o preoccupazione. Di non provare paura.
Dico ad entrambi che non ci sono problemi insormontabili all’orizzonte. Dico che li possiamo superare tutti senza fatica.
Forse è vero. Forse non del tutto.
Dico alla mia testa e al mio corpo che non è un problema non abbracciare le persone, non vederle quasi più, fare degli intrecci faticosissimi per incontrarle all’aperto in posti poco affollati, e a volte rinunciare perché diventa più stressante che piacevole. Che non è un problema pensare sempre a dove andare, se si può andare in un certo posto, realizzare che ci si sente a disagio ovunque si vada.
Non è un problema non poter entrare dentro a un cinema, dentro a un teatro. Non poter più fare teatro e parlarne con le persone.
Non avere i propri spazi durante le giornate e non per forza affannarsi per trovarli, ricercare con ansia delle cose che prima erano naturali.
Chiedersi se ci si può spostare, e se si rimarrà bloccati da qualche parte.
Non è un problema non poter mettere da parte il computer e non vedere in faccia i bambini ai quali faccio lezione, non usare dei fogli di carta con loro, passare minuti interminabili a dire “la tua faccia si è bloccata non ti sento molto bene puoi togliere il muto”.
Nessuno di questi è un grande problema, di questo sono consapevole.
La loro somma già è più faticosa. Ma anche questa non credo sia un problema insormontabile.
Una parte della mia testa è impegnata a ripeterlo. Una parte della mia testa è impegnata a dire che può concentrarsi su tutto quello che c’è di bello, su tutto quello che è facile. Di sicuro è un esercizio utile.
Ma la mia testa tralascia una parte.
Si dimentica di considerare anche tutto quello che non va. Decide che tutto quello che non va non è insormontabile, non è terribile, e quindi decide di non considerarlo come un problema. Salvo poi chiedersi perché sta mandando agli occhi il comando di piangere, alle mani quello di grattare la faccia, alle corde vocali quello di emettere una vocina flebile e insicura, alle gambe e alle braccia quello di andare sempre troppo veloci, al panico quello di essere sempre pronto a scattare per ogni minima cosa fuori posto.
La mia testa si sforza continuamente di diventare diversa da come è, e la sua modalità di farlo è far finta di non avere alcun problema.
A volte, per fortuna, si arrende. Dice: “Sono incapace”. Io lancio un sospiro di sollievo. Mi congratulo con lei.
Finalmente sento il fastidio.
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