Ho aperto il foglio per scrivere sul computer. Dopo cinque secondi sono andata sul sito di una rivista online. “Voglio solo controllare che ci sia un articolo” mi sono detta, ma poi mi sono ritrovata a leggere i titoli di tutti gli articoli senza leggerne nessuno. Poi ho letto tutti i nomi delle persone che scrivono su quella rivista, non so neanche perché.
Ho riaperto il foglio. Ho scritto le frasi qui sopra, quelle su di me che scrivo e apro la rivista online.
Poi mi sono alzata e ho riscaldato il tè avanzato dalla colazione. Sono tornata e ho scritto le righe su di me che riscaldo il tè.
Mentre scrivevo queste ultime due righe ho dovuto combattere contro l’impulso di: toccarmi la faccia e grattare via le bolle, aprire l’articolo che mi interessava sulla rivista online e spedirlo ad alcune persone, mandare un messaggio su facebook ad un’altra persona relativo a quello che sto scrivendo adesso, di nuovo toccarmi la faccia e grattare le bolle.
Tutte queste cose sono accadute nell’arco di due minuti, credo, forse anche meno.
Sto provando a parlare dell’attenzione. Adesso, appena l’ho scritto, mi sono detta: “Ah, ma quali sono gli ultimi articoli del blog? Di che parlavano? Potrei andare a rivederli.” E quindi da qui parte un mio rimbalzare infinito tra una cosa e l’altra.
L’anno scorso, intorno a questo periodo, un giorno sono andata con una mia amica in biblioteca. Io studiavo per un esame, lei per qualche cosa di direzione d’orchestra, ed era buffo vederla perché aveva le cuffie e muoveva le mani seduta al tavolo della biblioteca mentre scriveva su alcuni spartiti. Ad un certo punto mi ha detto, ammirata: “Come fai a fare tutte queste cose insieme!” Mentre studiavo, infatti, mi interrompevo e scrivevo qualcosa su una sorta di diario. Altre volte scrivevo degli appunti su un altro quaderno, oppure accendevo il computer per continuare il lavoro su alcuni copioni. E probabilmente, quando accendevo il pc, mi ritrovavo a leggere le cose più disparate.
Mi sono detta: “Vedi che bello, faccio tante cose insieme. È molto utile. La mia testa ha bisogno di passare da una cosa all’altra, da uno stimolo a un altro. Le serve e lo sa fare.”
O forse, più probabilmente, alla mia testa spesso manca l’attenzione.
In questi giorni sono a casa dei miei genitori. Passo il mio tempo principalmente al tavolo del salotto con A, che non pare avere alcun problema di attenzione, sta chino su dei fogli a scrivere orrende formule chimiche e quando scopre che è l’ora di pranzo dice: “Ah, non me ne ero accorto” e io lo invidio perché io mi accorgo sempre di che ora è, in ogni momento. Il mio panico non mi permette di non notare il tempo, il mio panico si sente perso senza l’orologio, ma questo è un altro argomento.
Mentre sto a casa dei miei genitori mi vengono in mente vari momenti di me al liceo.
È sera, ho finito i compiti, sono sul divano del salotto e inizio a leggere Madame Bovary. Mi ricordo che sono semisdraiata, ferma e, soprattutto, non mi distraggo. Si crea un tempo diverso nel mio stare ferma, tenere il libro, sentire il suo odore di pagine vecchiotte e farmi largo tra le righe piano piano, perché l’inizio è la parte più difficile.
Penso a quando, a scuola, avevo tre ore per fare un tema e mi chiedo come facessi a sopravvivere a tutte quelle ore di attenzione di seguito, come facessi a stare su quello e non su altro, come era bello stare su quello e non su altro.
Forse riuscivo perché ero costretta, e riuscirei anche adesso. Ma essere spesso costretta mi aveva reso allenata.
Quando faccio ripetizioni, a volte mi trovo a combattere con ragazzini che guardano il cellulare, soprattutto ora che le facciamo a distanza. “Rispondi dopo al messaggio, ora concentrati.”; “Non succede niente se ascolti questo messaggio dopo.”; “Puoi guardare la pagina che stiamo leggendo invece che quest’altra”. Ripeto queste frasi continuamente. Poi mi accorgo che, seduta comodamente a casa mia, dietro allo schermo del computer, sto aprendo l’icona di whatsapp a ripetizione, senza rendermene conto. La mia attenzione sta slittando via e io sono convinta di averla tutta intera.
Oppure finisco di fare una cosa e la mia mano, se sono sovrappensiero, va direttamente ad afferrare il cellulare senza sapere neanche perché, o forse solo perché è facile da fare.
Quando succede così, inizio a rendermi conto che è come se anche io, insieme alla mia attenzione, venissi tirata da ogni parte. Come se di me restassero tanti piccoli pezzetti che vanno in varie direzioni. E a quel punto arriva il panico, probabilmente perché prova a soccorrermi.
Anche quando ero al liceo mi distraevo. Mi stancavo di studiare e facevo una pausa. Leggevo, disegnavo. Mi sdraiavo per terra guardando il soffitto della mia stanza. Camminavo per la casa. Mi distraevo sempre, ma mi distraevo meno. E mi distraevo in un modo diverso.
La differenza è che mi distraevo lasciando uno spazio nella testa.
A volte mi distraevo e fissavo il vuoto. Ho notato con sollievo che capita anche adesso. Questo mi ha dato molta speranza nella mia lotta contro la mancanza di attenzione.
Nel vuoto arrivano altre cose. Arrivano delle idee. O non arriva proprio nulla e sento il vuoto.
Una serie di considerazioni molto più tecniche e super interessanti sull’attenzione si trovano su questa ted talk.
La prima cosa interessante è nel titolo: si chiama ” Otto secondi” perché è quanto dura di media la nostra attenzione.
Ogni quindici giorni, pandipanico verrà ospitato sulle pagine di Aware, ogni volta con un panico nuovo, nella nostra sezione dedicata al tema salute mentale. Qui il blog: https://pandipanico.blogspot.com/. Clicca sulla pagina “autore” in alto per leggere i precedenti articoli!