Martina Formaini è psicologa, psicomotricista relazionale e psicoterapeuta in formazione, e da anni si occupa anche di violenza di genere e sostegno alle vittime e alle sopravvissute. Accogliamo la sua richiesta di pubblicazione di una lettera indirizzata alla stampa e ai/alle professionist* dell’informazione per denunciare la narrazione tossica che spesso viene ancora veicolata sui media per riportare casi di femminicidio. Vi invitiamo a prenderne visione e firmarla come singoli e associazioni. Basta lasciare un commento a questo post.
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Ci risiamo.
Ci sentiamo costrette a riprendere in mano questa lettera redatta l’anno scorso per un ennesimo caso di narrazione tossica da parte dei giornali. Ora, di nuovo, nel giro di due giorni sono comparsi due titoli a dir poco sconvolgenti in merito alla narrazione di due femminicidi, raccontati a discapito della donna, rivittimizzata e posta paradossalmente in secondo piano per lasciare l’assassino in prima linea attorniato da un tono giustificatorio e paternalistico. Tutto questo non è più accettabile, non è più tollerabile.
Qui di seguito troverete la lettera che vogliamo trasmettere ai suddetti giornali, chiunque voglia apporre la propria firma infoltirà le fila delle donne e degli uomini stanchi di queste narrazioni tossiche inaccettabili. Le firme nei commenti, noi provvederemo a raccoglierle, Grazie.
Gentili giornaliste/i. Gentili caporedattrici/redattori.
Gentile tutte e tutti che vi occupate di informare, sensibilizzare, dare notizie.
L’ennesimo femminicidio si è consumato sotto i nostri inermi e sempre più addolorati occhi. L’ennesima notizia è stata diffusa in diversi, articolati e colorati modi senza rispetto e senza sensibilità nei confronti della vittima ma, soprattutto, senza nessuna attenzione al fenomeno sociale, ormai tragico e quasi quotidiano, del FEMMINICIDIO.
In qualità di professioniste/i della salute psichica, attente/i ai fenomeni sociali e alla loro narrazione, nonché alla strutturazione della psiche e del tessuto psico-sociale, ci teniamo a porre l’attenzione sui modi in cui i fatti di cronaca vengono descritti e raccontati. Le parole possiedono un potere immenso, ma occorre fare attenzione a quali e a come vengono utilizzate, poiché esse contribuiscono a formare la cultura dominante, a costruire l’immaginario collettivo della società, a influenzare le nuove e giovani menti. La violenza delle parole è meno palpabile, lascia segni meno visibili sul corpo, ma ha una potenza distruttiva spesso sottovalutata. Occorre sempre sottolineare e rimarcare che alla base di questi omicidi c’è sempre il bisogno di possesso, di sopraffazione, di potere. L’incapacità di gestire rifiuti, frustrazioni, vissuti di inferiorità. Non c’è amore, non ci sono raptus, non ci sono giganti buoni, uomini soli, delusi, innamorati. Non c’è amore, mai. C’è odio, risentimento, rabbia, talvolta agiti con premeditazione e lucidità. Utilizzare espressioni quali “l’ha uccisa perché l’amava troppo” ,“è stato un raptus di gelosia”, “ha perso la testa perché non sopportava l’idea di perderla”, benché di uso comune, sono fuorvianti. Non fanno che sminuire tali atti di cruda violenza, etichettare e giustificare come amore un qualcosa che con l’amore non ha nulla a che fare. Espressioni come queste non chiariscono che la violenza viene usata e agita per affermare il dominio e il possesso maschile sulla donna. Parole come queste mascherano una colpevolizzazione della donna, per la quale viene a mancare totalmente il rispetto, ed è come se venisse uccisa una seconda volta. Titoli che pongono l’accento sull’assassino e che narrano il suo punto di vista, dare spazio a supposte e illegittime giustificazioni scrivendole in capo all’articolo come “mi scuso, ero in un momento difficile perché ero stato lasciato dalla fidanzata” oppure “Lorena, la ragazza uccisa dal ragazzo che temeva il covid” deviano la percezione del lettore e alterano in modo inaccettabile la realtà dei fatti, ovvero lo stupro, il femminicidio, la violenza, l’uccisione dell’anima e del corpo di una donna.
Nel linguaggio comune ritroviamo l’espressione di una società che fa fatica ad evolvere, che continua a vedere la donna subordinata all’uomo e si rifiuta di riconoscerne il valore.
Chiediamo a gran voce di modificare i termini con cui vengono raccontati questi episodi in cui le donne vengono picchiate, torturate, violentate, uccise, private di dignità e di diritti. Se non partiamo da questo, dalle parole, dall’immaginario, dalla realtà, sarà difficile modificare la violenza che ancora non cessa di decimarci, di farci male, di annientarci.
Quando si narrano episodi di violenza e di femminicidio occorre necessariamente sgombrare il campo da ogni possibile ambiguità e sottolineare che non ci sono cause, non ci sono spiegazioni o moventi di alcun genere che possano giustificare la furia violenta e omicida.
Quando si narrano episodi di violenza è assolutamente sbagliato dare giudizi sulla vittima e sulla sua vita, esprimere giudizi sulle dinamiche della relazione tra la vittima e l’omicida, accompagnare la narrazione a foto di coppia, usare parole ed espressioni positive quali “il gigante buono” per descrivere chi ha commesso l’omicidio, come a voler dare a tutti i costi una giustificazione a un atto puramente criminoso.
Al contrario, vi sono parole giuste per parlare e narrare la violenza, senza alimentare ideologie fuorvianti, ma per restituire dignità alla vittima e umanità al suo dolore. In definitiva, esortiamo tutti voi a un’informazione corretta e attenta del fenomeno della violenza di genere, consci delle conseguenti implicazioni socio-culturali e dell’importanza, oggi più che mai, di una narrazione priva di pregiudizi che possa contribuire alla lotta verso la conquista del rispetto e della parità di genere.
Chiediamo tutte e tutti, professioniste/i della psiche, femministe, uomini che si dissociano, chiunque condivida il pericolo della rivittimizzazione della donna che subisce violenza e discriminazione, di impegnarsi a narrare la realtà con etica e con la consapevolezza del peso delle parole.
Il comitato organizzatore
Cinzia D’Intino
Martina Formaini
Simona Adelaide Martini
_Immagine in evidenza: da globalproject.info
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Anche su Aware abbiamo denunciato più volte la narrazione tossica sui casi di femminicidio, violenza di genere o nel modo in cui si parla delle donne e delle loro conquiste. Di seguito i link ai nostri articoli:
Elisa Pomarelli e la violenza della lente etero-patriarcale, leggi qui
Cultura dello stupro online, il caso di Rimini, leggi qui
Cultura dello stupro e responsabilità maschile: l’educazione a partire dai comportamenti quotidiani, leggi qui
Violenza di genere e giornalismo: non mancano gli strumenti, ma la volontà, leggi qui
Donne che fanno cose, leggi qui
Trovate altri articoli su femminismi, gender, LGBTQ+, ogni martedì, nella nostra sezione Una Stanza Tutta Per Noi