Nel 2001 avevo appena 9 anni. La prima volta che ho sentito parlare di Carlo Giuliani stavo ascoltando del rap. Nessuno me l’aveva mai raccontata quella storia, quella come tante altre. Del G8 si parlava tanto, a volte persino a scuola – con molta cautela – ma c’era sempre un’astrattezza che a me faceva star male, una sorta di lenzuolo morbido sul quale accomodare le verità, facendo sparire volti e nomi. Io sono tra quelle persone che pensano fermamente che non basta limitarsi all’idea, bisogna prender possesso della carne, del sangue, delle storie umane di chi quelle idee le ha portate avanti scegliendo una strada scomoda e pagando un prezzo.
Nessuno mi parlò del corpo di Carlo riverso sull’asfalto in una pozza di sangue. Nessuno mi parlò dei crani sfondati, dei polsi rotti e delle costole spaccate dei ragazzi e delle ragazze della Diaz. Nessuno mi parlò dei loro corpi percossi, nudi, in ginocchio, stesi, o contro il muro, ammassati tra loro e ricoperti di escrementi, urina, sangue, saliva, come bestie da macello. Nessuno mi parlò delle minacce di stupri, della tortura, delle risate soddisfatte, delle canzonette fasciste, dei capelli rasati a forza.
Ho dovuto strappare quelle storie con le unghie, andandomele a prendere dove mi dicevano, invece, di non guardare. E per farlo, ho dovuto abbattere la cortina di omertà, indifferenza e narrazioni ripulite che ancora oggi come allora ricoprivano le nostre scuole, università, comunità. Ho visto il volto di Carlo, il suo corpo martoriato. Ho ascoltato chi c’era. Ho cercato di capire e forse non ci riesco ancora del tutto, forse non ci riuscirò mai, in fondo. Come si può?
Di Carlo si è detto di tutto, speculando sulla sua giovane vita ancora e ancora. Eroe o violento, martire o criminale: bloccato per sempre in queste due pose, entrambe inesatte, da chi vorrebbe svuotare di senso tutta una lotta e lavarsi la coscienza con targhette e proclami. Da chi vorrebbe andare avanti, sempre e solo avanti. Perché gli incidenti di percorso capitano, perché in fondo che vogliamo farci, perché la colpa era pure un po’ sua – ma non poteva andarsene al mare, quel giorno?! – perché dai, una ze.cca in meno. Che vuoi che sia.
Noi invece vogliamo guardare indietro, reclamiamo a gran voce questa necessità e vi costringiamo a voltarvi per osservare dritto in faccia ciò che siamo stati e che siamo ancora. I nostri occhi sono rimasti fissi a quel giorno, incollati a quel volto che oggi compare come un’epifania agli angoli delle strade, sui palazzi, sui muretti delle piazze.
Carlo è diventato un simbolo, come è giusto e ovvio che sia, in fondo, nel bene o nel male. Eppure di lui sappiamo ciò che fu nello spazio di quelle maledette ore, a lui ricolleghiamo poche immagini e qualche oggetto… e male il più delle volte.
E di cosa sognava e sperava Carlo, che sappiamo? Quali progetti aveva per la sua vita? Come avrebbe passato quell’estate e quella dopo? Chi amava, cosa desiderava, che musica ascoltava, Carlo? Quali libri poggiavano sbilenchi sul suo comodino, quali poster abbellivano la sua stanza? Qual era il suono della sua voce quando chiamava gli amici, quando parlava con il padre o la madre? Di cosa aveva paura e cosa lo rendeva triste? Perché queste cose non sono importanti?
Carlo non era né un eroe né un criminale. Carlo era prima di tutto un ragazzo di 23 anni, ammazzato in un giorno di Luglio perché fece una scelta. Un ragazzo come me e te che forse stai leggendo e che fai i tuoi programmi per quest’estate – dove andrai? Con chi? Cosa metterai nello zaino? – e come te, che sei stato/a ragazzo/a 20, 30, 40 anni fa. Ricordi com’era? Lo ricordi davvero?
Io non li ho vissuti quei giorni, ma li ho accolti nel mio cuore come un’eredità indelebile che mi rende, oggi, chi sono. L’eredità d’una generazione dimenticata e violata in quel modo, l’eredità di Carlo e di tutti i ragazzi e le ragazze ammazzat* da chi indossa una divisa e si sente dio, ma un dio piccolo così, che si fa grosso solo nella protuberanza d’un manganello.
La loro eredità è la rabbia, ma anche la speranza, anche l’amore.
Oggi, 20 luglio, è anche il compleanno di mia sorella. 15 anni. Ed io mi sento personalmente responsabile del mondo che stiamo costruendo anche per lei. Mi sento personalmente responsabile di tramandarle la stessa rabbia, la stessa speranza, lo stesso amore.
Non so cosa farò nella vita… chi lo sa davvero? So solo che sono grata, oggi che ho 28 anni, per questi 5 anni di esistenza in più che invece Carlo non ha potuto avere. E che continuerò a sognare lo stesso sogno, a lavorare per esso, e a raccontare questa storia, questa come tante altre.
(Oggi, nel 2020, l’Italia è ancora sprovvista di una normativa per il codice identificativo delle Forze dell’Ordine).
Foto in evidenza: Carlo Giuliani in un murales a Garbatella, Roma.
Per altri approfondimenti:
– Da Wu Ming Foundation:
Tu che straparli di Carlo Giuliani, conosci l’orrore di Piazza Alimonda?
Dal blog Abbatto i Muri:
#GenovaG8: non potete archiviare i nostri ricordi e le consapevolezze!
Dalla pagina Facebook Cannibali e Re:
https://www.facebook.com/cannibaliere/photos/a.989651244486682/2218954848222976/?type=3&theater