In un’era in cui con Amazon è possibile ricevere a casa cuffiette in silicone dalla Corea del Sud con la stessa rapidità con cui si finisce un aperitivo, loro scelgono la strada lenta della ricerca e dell’auto-produzione artigianale.
In un mondo gonfio di parole e comunicazioni istantanee, loro si fanno promotori di un suono “senza messaggio”, fatto per sfibrare le cinghie rigide della razionalità e aprire le porte ad un flusso emotivo privo di sillabe.
Di fronte ad uno show-biz sempre più scintillante e patinato, loro seguono la vecchia scuola rock’n’roll dei palchi pieni di pubblico (quarantene permettendo) e delle casse-spia prese a calci (vedere le ammaccature per credere).
Michele e Isacco dei Frank Sinutre, con i controller assemblati nella loro sala prove di Sermide, in provincia di Mantova, e le sonorità a metà tra la new-wave anni ’80 e l’ultima ondata elettronica del secondo millennio, rappresentano un duo fuori dal tempo capace di andare controcorrente con la spensieratezza infantile di chi non se ne rende conto.
Li abbiamo incontrati in occasione della nostra ultima Diretta Resistente della stagione, in cui hanno condiviso il palco virtuale insieme a cantautori, producer e improvvisatori da strada. Tra un live in esclusiva dal loro “covo” e un ricordo delle estati spagnole passate a dormire nei parchi pubblici, ci hanno raccontato cosa si nasconde dietro alle sonorità magnetiche che hanno portato in giro per mezza Europa e perché è importante continuare a intendere la musica come un gioco.
“Una cosa che ci ha sempre colpiti è il fatto che il verbo suonare in inglese si dica to play, che significa anche giocare“. Ascoltarli per credere.
Ciao ragazzi, prima di tutto: come state e come siete sopravvissuti a questi mesi di anormalità collettiva?
Vi premettiamo che queste potrebbero essere risposte alla Abraham Simpson:
Abbiamo fatto l’ultimo live a Verbania il 22 febbraio, era un sabato e già le notizie di una imminente chiusura trapelavano fra i ragazzi presenti a quella festa. Era una festa in maschera per altro e qualcuno con ironia già aveva addosso la mascherina. Il giorno seguente a entrambi ci hanno comunicato che avremmo lavorato da casa con il famoso smar uorchi. Inizialmente, per le prime due settimane è stato un momento in cui si è potuto recuperare cose rinviate per anni. Ad esempio ho lavato le tende della sala prove. Erano forse 6 anni che non le si lavava. Nelle settimane successive quando ormai avevamo capito che sarebbe stata una guerra lampo come la prima guerra mondiale (cioè per nulla lampo) abbiamo iniziato ad organizzarci il lavoro. Fortunatamente avevamo anche pochi live programmati perchè stavamo già dando la priorità alla registrazione del nuovo disco, il nostro quinto, e quindi abbiamo dovuto rinunciare a pochi concerti. La fortuna ha voluto anche che circa a metà febbraio avevamo finito tutte le parti da registrare quindi ci sarebbe rimasto solo il mixaggio. Quindi per quei 3 mesi uno mixava i pezzi del disco da casa e l’altro raccoglieva i soliti contatti di radio etc a cui mandare il materiale una volta finito. Per il resto un po’ tutto come sempre se non che solitamente questi mestieri li facciamo quasi sempre insieme, ma a causa del lock down abbiamo dovuto farli separatamente. Questo è un po’ un peccato perché insieme lavoriamo sempre volentieri, forse con un po’ meno resa, ma comunque con delle grasse grosse risate da anziani che per noi costituiscono il sale della vita.
Parliamo di musica: come band avete iniziato a farla poco meno di 10 anni fa con l’idea di utilizzare (anche) strumenti elettronici tutti vostri, letteralmente assemblati a mano. In un’era in cui basta un click per ricevere a casa un controller statunitense in meno di due giorni, sembra una scelta quantomeno bizzarra. Da dove è venuta questa esigenza di “auto-produzione”?
Beh, i controller che compri su Thomann hanno pulsanti, knob e fader che rendono tutto un po’ più freddo. Non che li disdegniamo eh… li utilizziamo pure. Ma per il nostro set volevamo qualcosa di più “fisico”, che si prestasse di più al live e all’improvvisazione. La genuinità del reactaBOX consiste in due particolari: primo, permette di fare molte cose contemporaneamente (ad esempio, modulare 6 parametri nello stesso istante); secondo, permette di farle con molta meno precisione rispetto ad un controller convenzionale. Quest’ultimo può sembrare uno svantaggio, ma rende ogni esecuzione unica e originale.
Come detto, sono circa dieci anni che solcate palchi e festival in giro per mezza Europa. Cosa è cambiato nel vostro modo di fare musica e che cambiamento avete visto nel vostro pubblico?
Una cosa che ci ha sempre colpiti è il fatto che il verbo suonare in inglese si dica to play, che significa anche giocare. Ecco la musica è un gioco, scrivi un pezzo, lo cambi, lo arrangi, lo registri, ne fai un clip, e mille altre cose a seconda di come vuoi condurre il tuo gioco. E’ un gioco più o meno serio come più o meno seriamente si può prendere una partita a Risiko! o una partita a calcetto saponato o la finale di Champions; resta il fatto che la sua bellezza sta proprio nella magia che ha il gioco. Quando avevo 10 anni il mio gioco era essere il batterista degli Iron Maiden, Nicko Mcbrain (e il suo naso da Mike Tyson) e la mia batteria era fatta di fustini del Dixan (che erano rotondi all’epoca) e che sembravano dei timpani perfetti. Il gioco, più giochi poi, si fa sempre più serio. Negli ultimi 10 anni di Frank Sinutre il gioco si è fatto via via più serio, anche se in realtà ridiamo sempre allo stesso modo delle nostre dis(avventure); serio nel senso di attento, al passo coi tempi, senza imprevisti. Quando abbiamo iniziato, il nostro primo reactabox aveva il case in legno, dopo circa 50 date con quello ne abbiamo prodotto un altro e dopo il crowdfunding del 2017 il terzo, molto più affidabile del primo e del secondo, molto più completo. Allo stesso modo abbiamo sempre rinnovato e ampliato la nostra strumentazione, vocoder, live equipment, nuovi strumenti autocostruiti (in questo momento parallelamente al disco infatti stavamo lavorando ad un synth con motori elettrici), un visual show quando necessario, diverse tipologie di strumenti elettrici in funzione del pezzo che devi andare ad eseguire. Quindi i live negli anni si sono fatti via via sempre più ricchi di strumenti; all’inizio avevamo una chitarra, 5 pedalini, un synth e un rectabox in legno fatto in casa. Potevamo persino andare a suonare con la Yaris a 3 porte. Ora fortunatamente abbiamo uno di quei van porta tutto. Chitarre, basso, slide guitar, le nostre solite luci di wood (perché le luci dall’alto interferiscono con le luci dei reactable), ampli, effetti un po’ ovunque, synth e così via… Quindi se ci chiedi qual è stato il cambiamento avvenuto in questi 10 anni per noi, ti rispondiamo senz’altro l’ingombro e che a causa di ciò abbiamo dovuto comprare una macchina più spaziosa per infilarci dentro tutta la strumentazione.
Ma non solo, se parliamo di cambiamenti, in 10 anni è un po’ cambiato anche il nostro modo di fare musica. Anzi ogni 2 anni lo cambiamo!! Il primo disco era una colonna sonora quindi doveva aderire perfettamente al copione, il secondo disco è fatto di jam che suonavamo nei primi 30-40 live e che pian piano sono diventate canzoni che poi abbiamo registrato, il terzo album è un disco che abbiamo scritto direttamente mentre lo registravamo (e infatti a differenza del secondo era molto più faticoso da suonare live), il quarto è una compilation di remix che diversi dj e producer sparsi per il mondo han fatto del nostro pezzo “Sunset with Sunrise”. Questo disco, che sarà il quinto, l’abbiamo prima suonato tutto e poi una volta imparato abbiamo iniziato a registrarlo.
Se invece parliamo del cambiamento fra pubblico e concerti, il problema non è tanto nel pubblico quanto nel non-pubblico, nel senso che andando in giro un po’ ci si sente raccontare di tutto; dal vicino che un giorno sì e un giorno sì manda il vigile a misurare l’intensità sonora col fonometro, a quello che chiama l’asl per il controllo e via dicendo ma non addentriamoci oltre. Vogliamo solo riassumere tutta la situazione con una breve triste storia: un caffè in una città della Toscana, un live in strada, una vicina che dal balcone rovescia un secchio d’acqua, sotto il secchio d’acqua c’è un mac (probabilmente di qualche migliaia di euro) del suonatore. Per fortuna il suonatore in questione non eravamo noi. Triste e grottesca vicenda relativa ai concerti e al non-pubblico che vuole riassumere lo stato semi-attuale delle cose.
Poi se parliamo di cambiamento nel futuro, non lo sappiamo davvero. Il nuovo evento del virus ha scombinato un po’ tutti i piani e potrebbe non essere più così facile come prima. L’altra mattina mi sono svegliato con una frase in testa: oggi 22 febbraio 2020 è finito Woodstock.
Influenze: mescolate generi lontani e diversi, come l’elettronica e la dub, la psichedelia e la reggae, formando una sonorità totalmente nuova. Da dove viene la vostra ispirazione?
Esattamente, ci piacciono molti generi e ci piace mescolarli per quanto possibile; dipende molto dai periodi, anno dopo anno ci si affeziona a ciò che si ascolta e una certa canzone o un album diventano la colonna sonora di quel particolare momento della propria vita. Se qualcuno ascolta Neil Young nel periodo in cui scrive la tesi, state pur certi che ogni volta che ascolterà qualche canzone di Neil Young gli torneranno in mente, per tutta la vita, le notti insonni passate a scrivere la tesi. Nel momento in cui poi ti trovi in prima persona a scrivere qualcosa inevitabilmente emerge tutto l’ascoltato, da Debussy ascoltato a casa dei nonni agli Slayer ascoltati per caso a 12 anni e così via. Quando le canzoni sono cantate poi, spesso partiamo da un nucleo e successivamente lo sviluppiamo tutto attorno, a volte basta anche solo una frase che funga da catalizzatore della reazione. In questo caso quando scriviamo i testi sono quasi sempre piccoli eventi che hanno catturato la nostra attenzione e che abbiamo voluto fotografare in una canzone. Un giorno mio padre tornando a casa mi raccontò che sul ponte del Po aveva visto dallo specchietto retrovisore un signore che si stava buttando nel fiume, mi raccontò questo evento perché anche mia madre aveva assistito allo stesso evento ma dall’argine; quindi uno in auto sul ponte e una dall’argine hanno assistito a questo “tuffo” di questo disperato. Nel tornare a casa quando si sono incontrati si sono detti “ti devo raccontare una cosa che mi è successa oggi” e così han scoperto di aver assistito allo stesso evento. Ecco storie come queste sono diventate canzoni.
Quando componete vi si immagina nel salotto della vostra casa di campagna con le finestre aperte sui campi e le casse a tutto volume, mentre con le sonorità seguite quello che vedete scorrere in lontananza. È così che siete arrivati ad un lavoro complesso e ricercato come “The Boy Who Believed He Could Fly”? O lavorate più individualmente ragionando in maniera “analitica” alle sonorità?
In realtà entrambe le cose. Quando abbiamo registrato “The Boy” abbiamo affrontato la cosa nel modo che credevamo più “professionale”: ci siamo seduti davanti al PC e abbiamo costruito i pezzi con un approccio analitico. Alla fine eravamo contenti ma quando abbiamo iniziato a preparare il live ci siamo accorti di un errore: non sapevamo suonare le canzoni. Abbiamo faticato un bel po’ per assimilare la scaletta. Lezione imparata: quando abbiamo iniziato a registrare l’album che stiamo completando in questi giorni, ci siamo imposti la condizione di costruire ogni pezzo nel modo più banale (ma non poi così scontato): suonandolo. Con le finestre aperte sui campi, come dici tu, oppure rinchiusi, con la stufa accesa al riparo dal freddo e dalla nebbia. Volevamo un disco che ci facesse divertire già in partenza. Solo dopo aver raggiunto quell’obiettivo sono partite le registrazioni.
Sermide, nella provincia di Mantova, è il vostro centro di gravità. Qui avete composto i quattro album e qui tornate alla fine di ogni tour, nonostante le città “must” per chi fa musica (soprattutto elettronica) siano ben altre. Cos’ha questo piccolo paese che non trovate nelle grandi città? Quanto di questo posto c’è nella vostra musica?
Sermide è il piccolo buco di un lavandino, di un grosso lavandino pieno di nebbia chiamato Pianura Padana. Sermide è il piccolo paese dove abbiamo fatto tutto. Una casa di campagna, dei vicini lontanissimi, così lontani che puoi fare l’intro di Iron Man dei Black Sabbath con la batteria alle 4 del mattino. Ecco uno dei piccoli vantaggi. In città le sale prove costano, si hanno limiti di tempo, orari da rispettare; in città ci sono veramente dei limiti imbarazzanti. Forse da qui in paese hai molta meno esposizione ma una grande libertà. Voglio dire, è impareggiabile come senso di libertà poter registrare il proprio album quando è estate in mutande con il gatto della sala prove coricato sulla tua pedaliera. Ed è impareggiabile prodursi i dischi direttamente in sala prove: puoi cambiare idea ogni 5 minuti, provare fino a quando sei soddisfatto del risultato, e soprattutto avere molto molto tempo per poterti permettere tutti gli esperimenti che vuoi: una volta per esempio ho beccato Isacco che campionava un trattore alla finestra. Giuro.
Che poi in realtà facendo un piccolo zoom all’indietro la nostra è una piccola realtà corale, siamo parte di una piccola associazione, che c’è da circa 13 anni, “La Saletta” in cui ritrovi sempre i vecchi amici e molti dei personaggi che ispirano le nostre giornate oltre che le nostre tracce. Più o meno la nostra storia ha ruotato tutto intorno a questa casa da sempre. Pure noi 2 suonavamo in band diverse e a forza di incontrarci sul pianerottolo che divideva le due sale prove abbiamo iniziato a frequentare la sala prove uno dell’altro. A volte penso ai 5 gatti che abitano qui, 2 dei quali sono qui dal 2008, loro hanno visto e sanno tutto: ci hanno visto studiare per gli esami dell’università, laurearci, fare figli, andare a Berlino per poi ritornare, feste, cene, e tutti i dischi a cui abbiamo lavorato al primo piano, loro c’erano sempre, in una traccia di un disco di dieci anni fa ha pure cantato uno di loro. Ecco, loro anche se sono gatti di campagna hanno incontrato almeno 2000 persone nella loro vita qui. Forse esagero, facciamo 1990. Comunque sicuramente pur essendo gatti di campagna hanno conosciuto più umani di un gatto di città in appartamento. Ecco perchè Sermide, come mille mila altri paesi va bene a dispetto di altre mille mila città. In città ci si va a suonare, poi per fortuna si torna a casa. In sintesi.
Tendenzialmente i vostri pezzi non hanno testi o almeno non sono al centro dei vostri lavori. Perché? Non sentite che così il vostro lavoro perda qualcosa in termini di messaggio/comunicazione?
In realtà non ci sentiamo portavoce di messaggi di qualsivoglia valore umano. Ci piace l’idea che, nella musica, sia soprattutto la musica a parlare; ci piace sfruttare soprattutto la potenza comunicativa non-verbale della musica. I testi che inseriamo (soprattutto in “The Boy” e nel prossimo album) sono frammenti di pensieri, frasi semplici o, talvolta, vicende personali che hanno spesso la funzione di guidare ed indirizzare il messaggio non-verbale della musica.
Nel nostro giornale online, la sezione dedicata all’arte di chiama “Arte resistente”. Credete che ci sia un carattere “resistente” nel creare strumenti ex-novo e elaborare sound mescolando generi apparentemente lontani come fate voi?
A giudicare dal numero di botte che prendono i nostri strumenti prima, durante e dopo i live direi che sì, hanno un carattere resistente. A parte questo, direi di no. Facciamo musica per piacere, perché ci fa sentire bene. Comunque sì, è un po’ una forma di resistenza.
Torniamo alla quarantena: che periodo avete vissuto? Cosa portate con voi a livello artistico?
Non credo si possa chiamare una “fortunata coincidenza” ma il periodo del lockdown per noi ha coinciso con il lavoro più sedentario che ci potesse capitare: mixare i 10 brani del nostro nuovo album che avevamo appena finito di registrare. Abbiamo così avuto l’opportunità di applicare lo smart-working alla nostra routine artistica. Una modalità inedita per noi che siamo abituati a vivere la sala prove.
A livello più ampio, cosa a vostro avviso dovremmo custodire e cosa dimenticare di questi mesi di clausura?
Custodire: la consapevolezza della subordinazione umana ad un ecosistema più grande, la capacità di reazione abbastanza lucida ad un problema critico, il lavoro da casa e soprattutto le nuove casse da studio che ci siamo comprati per mixare il nuovo disco (ma forse anche solo per il gusto di comprare un nuovo giocattolo).
Dimenticare: niente. Abbiamo vissuto un momento storico, nel bene e nel male. Un periodo che, nel suo svolgersi, ha racchiuso tanti aspetti della società in cui viviamo. Perché dovremmo tentare di dimenticarlo?
Che progetti avete per l’estate e il prossimo autunno? Si torna sul palco?
Per tutti quelli che fanno musica, a qualunque livello, l’estate sembra abbastanza incerta e ci fa un po’ dispiacere. Puoi raccontarti finché vuoi che “suoni per te stesso” ma la verità è che senza un palco e un pubblico tutto perde un po’ di senso. Il viaggio, il check, le nuove amicizie, la cena in compagnia, i ragazzi e le ragazze che ti chiedono un disco… sono tutte cose senza le quali puoi stare solo per un periodo limitato di tempo. Ma poi, ne hai bisogno come del metano che non si trova in autostrada (a proposito di cose che fanno parte dell’atmosfera del live).
Approfitteremo di questo periodo per far conoscere il nostro nuovo disco che uscirà durante l’estate. Si chiamerà “200.000.000 steps” (pare che sia la distanza percorsa, in media, da una persona, nel corso della propria vita) e sarà preceduto dal video del brano omonimo che vedrete presto.
Ecco i nostri link se volete dare un’occhiatina:
YouTube: http://www.youtube.com/channel/UC4HAxplF1kAD53XHmp-YYxw
Soundcloud: https://soundcloud.com/frank-sinutre-music/tracks
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Spotify: https://open.spotify.com/artist/6WtgiGqvqVma7Iiuo94SZp
?I Frank Sinutre sono tra i protagonisti della playlist di Aware “tante belle cose” dedicata alla musica indipendente e resistente italiana ? CLICCA QUI ? per ascoltarla su Spotify!