Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Ilaria Nassa, attivista femminista e autrice per Contronarrazioni, in vista della sua presenza questa sera come ospite del nostro nuovo appuntamento con le #DiretteResistenti di Aware, ore 21 sulla nostra pagina Facebook. Stavolta parleremo di diritti LGBTQ+, cultura ed educazione di genere, nuove narrazioni. Con Ilaria ci saranno anche Nicholas Di Domizio di Arcigay – Chieti e Valeria Roberti della rete Educare alle Differenze. Vi lasciamo con l’intervista, in cui abbiamo già toccato alcuni dei punti che saranno affrontati questa sera: tra gli altri, l’importanza di rifondare l’immaginario e il linguaggio per creare nuove narrazioni di genere più inclusive e trasversali.
Ciao Ilaria. Innanzitutto, come stai?
Bene, grazie! Molto contenta di “essere qui”.
Ti sei laureata in Gender Media Studies due anni fa. Raccontaci di te: qual è stato il tuo percorso, per arrivare a decidere che questi studi erano importanti per te?
Ho avuto un percorso un po’ tortuoso e incerto, ma che non cambierei in alcun modo. Quando ho finito la triennale in DAMS a Bologna ero insicura circa il mio futuro. L’arte scenica mi affascinava un sacco soprattutto dal punto di vista antropologico. Tuttavia sentivo che quella non era la mia strada. Mi sono trasferita poco dopo a Roma e, prima di decidere quale magistrale frequentare, ho fatto la commessa presso una nota catena di intimo. Lì ho iniziato a conoscere il marketing, le strategie di vendita e ho pensato che potesse essere questa la mia strada. Allora mi sono iscritta al corso di laurea magistrale di Roma Tre in Informazione, Editoria e Giornalismo. Ho frequentato subito un laboratorio di Lineamenti di Genere della prof. Federica Giardini. È stato qui che c’è stata davvero la svolta per me. Fino allora pensavo che il Femminismo fosse stata una parabola degli anni Settanta. Mi definivo femminista, certo, ma analizzandomi allora con gli occhi di adesso, il mio era un femminismo molto ingenuo, incompleto, giudicante. Forse non dovrebbe nemmeno definirsi femminismo. Avevo solo questo grande desiderio di emanciparmi, di essere libera, ma non avevo le parole, le risorse e gli strumenti. Non credevo che il Femminismo potesse trovarsi anche all’università. E soprattutto, non avevo ancora idea che il Femminismo poteva diventare un modo di vivere la propria vita, di creare rappresentazione, di parlare del quotidiano. A Roma è davvero iniziata la mia formazione, la mia ricerca. Ho avuto la fortuna di avere come docenti non solo Federica Giardini, ma anche Elisa Giomi. Giomi è stata la mia relatrice e Giardini la mia correlatrice. Insieme a loro sono riuscita a scrivere una tesi sul nuovo mammismo all’interno della cornice postfemminista che mi ha impegnata per quasi un anno. A Roma Tre sono stata anche tutor del Master Studi e Politiche di Genere, un master strutturato per moduli, che mi ha messo in connessione con altre docenti, altre ragazze, altre vite. Con alcune ragazze abbiamo sperimentato anche un gruppo di autocoscienza, esperienza che mi ha formato molto dal punto di vista intimo e relazionale. Adesso che sono fuori dal contesto universitario, continuo a leggere, a studiare.
Su Contronarrazioni parli di film, libri, serie tv e pubblicità. Riguardo a mezzi come pubblicità, applicazioni e social, hai notato un miglioramento negli ultimi anni per quanto riguarda l’abbattimento dello stereotipo e del linguaggio al maschile?
Per quanto riguarda le pubblicità, a livello internazionale, soprattutto per quanto riguarda il mondo anglosassone, c’è una tendenza a includere le diverse soggettività e a rappresentarle. Penso alla pubblicità della Starbucks, per esempio, che ha rappresentato l’emancipazione di un ragazzo ftm con la scelta del proprio nome. In Italia si fa più fatica, ma un lento cambiamento era percepibile. Prima della quarantena si avvertiva sempre più una tendenza di tipo inclusivo. Non appena il Covid-19 ci ha costretto nelle nostre case, sono tornate le rappresentazioni della famiglia nucleare ed eterosessuale. È stata davvero dura dover vedere tutta una serie di rappresentazioni di questo tipo, perché di nuovo sono scomparse le altre soggettività. I social stanno diventando un mezzo meraviglioso, invece, da questo punto di vista. Ci sono persone sempre più consapevoli che parlano, si espongono, interagiscono. Forse si sta lentamente generando una consapevolezza maggiore nelle nuove generazioni. Tuttavia mi rendo anche conto che creare rete online vuol dire entrare in un gruppo e “ignorare” tutto ciò che c’è intorno. Quindi forse sarebbe opportuna un’indagine più approfondita.
L’italiano è una lingua che richiederebbe uno sforzo maggiore per eliminare il maschile plurale, rispetto all’inglese dove gli aggettivi sono neutri: se vogliamo includere maschi e femmine (seppur dimenticandoci delle altre identità di genere) dobbiamo prendere molto più spazio. Hai mai pensato a una soluzione possibile, magari ovviando a questo problema?
Da femminista, mi piace dare spazio e interrogare chi vive in prima persona i problemi e quindi ha già pensato a soluzioni. Penso alla comunità trans e alle persone non-binary che non hanno modo di definirsi attraverso il maschile e il femminile. Il genere “neutro”, che come ci insegna Vera Gheno, non esiste in italiano. Quello che viene definito neutro è solo un maschile esteso, che dice molto più della nostra mentalità che delle soggettività di cui è effettivamente costituito il gruppo. La comunità trans declina in “-u” e usa il più possibile parole neutre, come “persona” al posto di “ragazza/o”, per esempio. Può non piacerci il suono della “-u”, ma è una soluzione efficace per tuttu.
Rispetto invece alla rappresentazione, mi viene in mente l’esempio della app Immuni: a prescindere dal suo uso, è sicuramente una app ben strutturata e con una buona User Interface, che strizza l’occhio anche ai più giovani. Possibile che non abbiano ragionato sulle grafiche, sulle rappresentazioni delle persone? E che nonostante le critiche, non abbiano capito il problema Passiamo molte ore sulle app e sui social, se le aziende per prime si impegnassero a una rappresentazione più vicina ai nostri tempi, credo che potrebbero avere un fortissimo impatto sui consumatori e le consumatrici.
Sono d’accordo. Riguardo questo, scrissi un post proprio sulle grafiche scelte, dopo che una persona su Facebook si era lamentata che le femministe non parlavano abbastanza con coloro che dovevano effettuare rappresentazioni. Sinceramente mi ero sentita un po’ offesa, perché sono anni che parliamo e sono anni che veniamo definite esagerate, pazze oppure non ascoltate. L’app Immuni è un esempio di come l’Italia vede la propria realtà. Si poteva risolvere in modo furbo il “problema” rappresentando un gruppo di persone indistinto che camminano in strada. Invece hanno deciso di ritornare alla casa, al nucleo, alla genitorialità. Non che ci sia nulla di sbagliato nella famiglia nucleare. Ci tengo a sottolineare che è un tipo di realtà che c’è, esiste e merita rappresentazione. Tuttavia non è l’unica famiglia, l’unica realtà che merita di essere rappresentata. Il punto è proprio questo.
Ci sono ancora troppe, troppe pubblicità (parlando almeno per l’Italia) che continuano a cadere nel banale e nella narrazione patriarcale. Pensi che i brand dovrebbero considerare l’idea di includere nel team di lavoro un esperto o una esperta di studi di genere e del linguaggio inclusivo, nella creazione dei loro contenuti?
Sarebbe il lavoro dei miei sogni. Se c’è qualche brand che mi vuole assumere, sono qui! Scherzi a parte, sì, ci vuole un’educazione allo sguardo, un’ecologia dell’immagine, per dirla con le parole di Anna Lisa Tota. È necessario che i brand allarghino i propri orizzonti e il proprio immaginario. Spesso le pubblicità vengono costruite da indagini di mercato che però possono essere fuorvianti. Prendiamo un dato come esempio: ancora oggi ci sono moduli di iscrizione o altro che ti chiedono di spuntare la casella del “sesso”: F/M. Il sesso e il genere non sono la stessa cosa. Il sesso può essere femminile, intersex o maschile. Il genere maschile, femminile, trans, non-binary e molto altro ancora. Le immagini influenzano il nostro immaginario e i media devono comprendere che hanno la responsabilità di andare a contribuire a costruire l’immaginario altrui.
Parlando sempre di genere e di inclusività nei linguaggi, quando ci rivolgiamo alla comunità LGBTQAI+, come facciamo ad essere sempre più inclusiv*, soprattutto nel parlato?
Come accennavo prima, la declinazione in “-u” è molto utile, assieme all’utilizzo di parole “neutre”. Ci sono varie scuole di pensiero. Vera Gheno nel suo libro Femminili Singolari propone lo shwa, un suono muto al posto della vocale finale di una parola. È ancora tutto in definizione e in divenire. Tuttavia, la lingua cambia a seconda dei tempi e delle esigenze, quindi arriverà una soluzione che si sedimenterà nelle nostre grammatiche.
L’obiettivo di Aware è di fare cultura e contronarrazione positiva, condividendo bellezza. Ci consigli una serie tv, un film, una che hai visto di recente che ha suscitato in te un sentimento di empatia e bellezza?
Ce ne sono parecchi. I film che vi consiglio sono Gesù è morto per i peccati degli altri, Fuori Rotta, 37 Seconds. Il primo è ambientato a Catania e documenta la vita di alcune donne trans che si prostituiscono nel quartiere di San Basilio. Il secondo è un urlo di gioia di Beatrice, donna trans che è una meccanica. È bellissimo, veramente, ve lo stra-consiglio. 37 Seconds è un film giapponese che tratta il tema della disabilità con durezza e purezza. Un documentario che mi ha fatto piangere è stato Un amore segreto, dove vengono tratteggiate le vite di due donne lesbiche che sono state insieme per tutta la vita. Per quanto riguarda le serie tv ce ne sono tante: Non ho mai…, Fleag Bag, Dear White People, Please Like Me, Unorthodox, Glow, Pose e Sex Education sono alcune delle mie preferite. In queste si è rappresentata la diversità senza difficoltà e senza sforzo. Mi piacciono tutti quei film, quei libri e quelle serie tv in cui si mette in scena la realtà nella sua diversità senza dover fare domande o dare spiegazioni, rappresentandola così com’è. Vi lascio con due immagini, entrambe scattate durante la Biennale di Venezia dello scorso anno. Anche se parlo di media, i libri sono e saranno sempre il mio primo amore.
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