Quante volte vi è capitato di sentir dire «La moda è una cosa per donne»?. Per quanto mi riguarda, innumerevoli. Quando mi iscrissi alla facoltà di fashion management di Rimini, era per avere la possibilità di ottenere un ruolo di rilevanza in un mondo in cui credevo che le donne fossero valorizzate. Dopotutto, siamo le maggiori clienti del mondo della moda. Solo in Inghilterra, le donne spenderanno in media 29,4 miliardi di pound tra il 2019 e il 2022 secondo le maggiori aziende di forecasting. Sembrerebbe un’industria fatta dalle donne, per le donne. Ma è veramente così?
Secondo un’indagine di Business of Fashion, solo il 40% delle case di moda sono guidate da imprenditrici e stiliste donne. Il numero diminuisce soprattutto se si guarda alle settimane della moda più tradizionali, come Parigi e Milano, dove predominano gli stilisti uomini. In particolare, durante la Milano fashion week, solo il 31% dei designers rappresentati è donna. Se guardiamo ai maggiori gruppi di moda, il fenomeno diventa ancora più palese. Di tutti i marchi di moda del gruppo LVHM solo tre sono guidati da donne, e tra questi spicca Dior con Maria Grazia Chiuri. Nel gruppo Kering invece troviamo solo Stella McCartney e Sarah Burton per Alexander McQueen. Forse non è tutto oro ciò che luccica.
Si potrebbe pensare che forse ciò è dovuto ad un minor numero di studentesse di moda rispetto alla controparte maschile, ma anche qui i dati parlano da se. Dallo stesso report di BoF infatti, si evince che nel 2014, l’85 degli studenti del New York’s Fashion Institute of Technology erano donne. Ma allora qual è la causa di questo sbilanciamento? I fattori sono molteplici e sono basati principalmente su dinamiche di potere e presupposti sessisti, tra cui spiccano la famiglia, ma anche stereotipi sulla creatività femminile. Dichiara Moira Beningson:
«Usually the creative director is between the age of 30 to 45. That’s the time, traditionally, that women are getting married and perhaps want to start a family — and it makes it completely prohibitive to do that if you are doing one of those gruelling jobs».
E ancora Stokes:
«Men [are] more represented as artistic and original, and women are represented as being less-artistically oriented…[or] having a feminine touch. I don’t think the people writing for Vogue are…necessarily aware of how these criteria like autonomy and original art and authenticity can be gendered, but they’re falling back on these conventional ideas about gender in order to asses the designs».
La scelta di Maria Grazia Chiuri come stilista di Dior mostra un timido progresso verso l’uguaglianza dei sessi nelle top position del mondo della moda. Allo stesso tempo però c’è un altro aspetto della moda legato alla femminilità, ossia la produzione sartoriale. Ma purtroppo anche qui le donne non hanno vita facile. Secondo un report di Fashion Revolution, più del 70% dei lavoratori dell’industria tessile in Cina sono donne, in Bangladesh sono circa l’85%, mentre in Cambogia arrivano fino al 90%. Ma queste lavoratrici sono tutelate? Secondo Fashion Revolution, no. Infatti molte donne sul posto di lavoro subiscono regolarmente molestie e ricatti:
«Girls in the factory are harassed by male managers. They come on to the girls, call them into their offices, whisper into their ears, touch them, bribe them with money and threaten them with firing if they don’t have sex with them. […] Some employers will only hire unmarried women with no children and some make each woman sign a document that they agree not to have children during their term of employment. Women who become pregnant during their employment may try to hide it, often resulting in birth defects and other childcare issues».
L’indagine di FashRev mostra come queste donne siano sfruttate, sottopagate da aziende che producono capi per brand di moda Occidentali. Questi hanno delocalizzato la produzione in Asia per poter promuovere i prezzi competitivi del Fast Fashion che bene conosciamo. Prezzi però figli dello sfruttamento. Soprattutto in questo periodo, molte aziende produttrici non sono state pagate a causa del Covid19 e della conseguente cancellazione degli ordini. Molte operaie perderanno il posto, con nessuna o quasi nessuna assistenza o welfare. Kalpona Akter, direttrice del Bangladesh Center for Workers Solidarity group ha dichiarato:
«We have a cruel reality here. Simply, they will go hungry, their families will suffer, their children, their parents will suffer for lack of food, medicine. The global brands will lose a fraction of their profit, the owners will also lose their share, but the workers will be left without food and medicine».
La situazione ha raggiunto enormi livelli di criticità. Ma qualcuno sta protestando. Gli attivisti di Clean Clothes Campaign hanno recentemente organizzato una protesta online per far emergere pubblicamente quali brand si rifiutano di pagare gli ordini. Allo stesso tempo, incitano chiunque sia interessato al problema a farsi avanti e richiedere ai brand di moda di rispettare i diritti dei lavoratori, tramite post sui social media, petizioni e donazioni.
Per chi come me sogna una carriera nella moda ed ama questo settore, è importante iniziare a farsi sentire. Perché non è indossando t-shirt con su scritto «We should all be feminist» di Dior che le cose cambieranno. Cambiano solo se lo vogliamo noi. E se combatteremo per cambiarle.
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