Condividiamo qui il discorso con cui l’attrice e attivista indigena Kay Sara ha inaugurato lo scorso 16 maggio il Wiener Festwöchen al Burgtheater di Vienna, il festival teatrale spostatosi online a causa dell’emergenza sanitaria. Non potendo farlo di persona, Kay Sara ha deciso di far arrivare il suo messaggio di resistenza e denuncia direttamente dalla foresta Amazzonica, dalla quale ha registrato il video, che qui alleghiamo a fine articolo. L’attrice vestirà i panni di Antigone nella produzione della tragedia sofoclea con la regia di Milo Rau, attualmente bloccata a causa della pandemia di Coronavirus in Brasile.
Da sempre simbolo della fierezza e del coraggio di opporsi al Potere e alla Legge ingiusta, il personaggio di Antigone incarna quel concetto di Resistenza attiva e performativa che Rau ha voluto reinterpretare trasportandolo nei tempi moderni e ambientando la sua tragedia per l’appunto in Amazzonia. Il discorso di Kay Sara, che qui riportiamo per intero nella traduzione di Sotera Fornaro (dal blog Visioni del Tragico) sulla base della trascrizione dello stesso Milo Rau, inaugura anche il primo episodio di School of Resistence, una piattaforma di discussione pubblica lanciata dallo stesso regista per ragionare sui temi del cambiamento e della lotta all’oppressione nel mondo.
Vi lasciamo con le parole di Kay Sara.
Questo discorso comincia con molti condizionali. Oggi sarei dovuta essere sulla scena del Burgtheater e aprire le Wiener Festwochen. Sarei stata la prima indigena in assoluto a tenere un discorso in questo teatro, uno dei più grandi e ricchi teatri del mondo – come mi hanno detto. Avrei cominciato con una citazione da un classico europeo, l’Antigone di Sofocle: «Molte cose sono mostruose. Ma niente è più mostruoso dell’uomo».
Perché io sarei arrivata da voi direttamente dalle nostre prove in Amazzonia, una nuova messa in scena europea-brasiliana dell’Antigone. Io avrei avuto il ruolo di Antigone, che si ribella contro il Re Creonte, che non vuole seppellire suo fratello, perché lo considera un nemico di Stato. Il coro avrebbe dovuto essere costituito da senza terra, sopravvissuti a un un massacro del regime brasiliano.
Noi avremmo rappresentato questa nuova Antigone su una strada occupata che attraversa l’Amazzonia – quelle foreste che sono in fiamme. Non sarebbe stato un pezzo di teatro, ma una azione. Non un atto dell’arte, ma un atto di resistenza: contro quel potere politico, che distrugge l’Amazzonia. Ma tutto questo non è accaduto. La strada che attraversa l’Amazzonia non è stata occupata, io non ho recitato l’Antigone. Noi siamo tutti di nuovo dispersi per il mondo, e ci vediamo ancora solo sugli schermi – come adesso.
I miei amici europei mi hanno chiesto come sto. Sto bene. Mi trovo nella foresta, dal mio popolo, nella parte più settentrionale del Brasile, sulla riva del fiume Oiapoque. Mi circonda la natura, mi protegge e mi nutre. Vivo al ritmo del canto degli uccelli e della pioggia, eseguo i rituali che mi portano in contatto con i miei antenati. Per la prima volta da 500 anni, l’Europa e l’America sono di nuovo separate l’una dall’altra.
Appartengo al terzo Clan del popolo dei Tariana, il Clan del fulmine. Sono una figlia del dio dei fulmini, figlia di un re, come Antigone. Prima, racconta il mito, noi Tariana eravamo uomini di pietra. Ma nell’età moderna abbiamo assunto un corpo umano, per poter comunicare con gli uomini che vennero da noi.
Mia madre, una Tucana, mi dette il nome di Kay Sara, che significa: ‘Colei che ha cura degli altri’. Da parte paterna io sono, dunque, una Tariana. Ma parlo con voi nella mia lingua materna, il Tucano. Come tutti, sono una mescolanza di molte cose: sono Tucana e Tariana, una donna, una attivista, un’artista. Vi parlo, dunque, in rappresentanza di tutto questo.
Noi Tucana siamo denominati ‘indiani’. Ma io insisto sul fatto che dobbiamo essere chiamati indigeni. Perché indigeno significa: ‘di questa terra’. Sono diventata attrice per poter raccontare di noi, degli indigeni. Per molto tempo la nostra storia è stata raccontata con le parole dei non-indigeni. Ora è giunto il tempo di essere noi a raccontare la nostra storia.
La nostra disgrazia è cominciata, quando nella nostra terra arrivarono gli Spagnoli e i Portoghesi. Dapprima vennero i soldati, quindi i missionari. Con gli Europei arrivarono da noi anche le malattie. Morirono in milioni. Altri milioni di noi morirono per mano dei soldati e dei missionari, in nome di un Dio e di una civiltà, in nome del progresso e del guadagno. Alcuni abbandonarono le foreste, per lavorare nei campi. Ma alla fine del lavoro li uccisero, per non pagarli. Oggi solo pochi di noi sono sopravvissuti. Sono una delle ultime dei Turiana. E da poche settimane è arrivata da noi l’ennesima malattia dall’Europa: il Coronavirus. Forse siete venuti a sapere che a Manaus, la capitale dell’Amazzonia, questa malattia imperversa in maniera particolarmente orribile. Non è più tempo per sepolture vere e proprie. Gli uomini giacciono in fosse comuni, e sono coperti di terra dai trattori. Altri giacciono per strada, insepolti, come il fratello di Antigone.
I bianchi usano il caos, per penetrare ancora di più nelle foreste. Gli incendi non sono più spenti. La deforestazione si è incentivata. E da parte di chi? Chi finisce tra le mani dei taglialegna, viene trucidato. E che ha fatto Bolsonaro? Quel che ha sempre fatto: stringe la mano dei suoi sostenitori e deride i morti. Ha incaricato i suoi collaboratori di non avvisare i popoli indigeni che è scoppiata una malattia. È un invito al massacro. Bolsonaro vuole portare fino in fondo il genocidio degli indigeni, che perdura da 500 anni.
Lo so: siete abituati a discorsi come questo. Quando è troppo tardi, arriva sempre da voi una profetessa o un profeta. Quando nelle tragedie greche entrano in scena Cassandra o Tiresia, allora si sa che la sventura è già in corso. Perché voi ci ascoltate volentieri se cantiamo, ma non se parliamo. E se ci ascoltate, allora non ci capite. Il problema non è che non sapete, che le nostre foreste bruciano e i nostri popoli muoiono. Il problema è che vi siete abituati a queste cose.
Vi dico dunque cose che tutti sapete: da alcuni anni i fiumi minori dell’Amazzonia, per la prima volta a memoria d’uomo, sono secchi. Nei prossimi dieci anni l’ecosistema dell’Amazzonia collasserà, se non facciamo subito qualcosa. Il cuore di questo pianeta smetterà di battere. Lo affermano i nostri e i vostri scienziati, e forse è l’unico argomento su cui concordiamo. Andremo in rovina, se non facciamo qualcosa. Non possiamo essere così egoisti da negare alla prossima generazione ciò che di più bello abbiamo, la Natura, e dal liberare ogni energia, per la nostra sopravvivenza.
Nelle ultime settimane ci hanno spedito molti appelli, sottoscritti da molte celebrità. Volete usare meno l’aereo, rubare meno, uccidere meno. Ma come potete credere, dopo 500 anni di colonizzazione, dopo migliaia di anni di sottomissione del mondo che possiate concepire un pensiero che non porti solo ulteriore distruzione? Se ascoltate voi stessi, troverete solo il vostro complesso di colpa. E se viaggiate nel mondo, troverete solo la sporcizia con cui ci avete contaminato. Non esiste niente rispetto al quale potete fare marcia indietro. Io non ho paura per me, ho paura per chi verrà dopo.
Ed è per voi, dunque, tempo di tacere. È tempo di ascoltare. Avete bisogno di noi, i prigionieri del vostro mondo, per capire voi stessi. Le cose stanno in maniera davvero semplice: non c’è guadagno in questo mondo, c’è solo la vita. E perciò è bene che io non sia sulla scena del Burgtheater. Che io non vi parli da attrice. Perché qui non si tratta più d’arte, non si tratta più di teatro. La nostra tragedia è qui e ora, nel mondo, sotto i vostri occhi.
E forse è questo, ciò che mi inquieta di più, se io sento parlare Creonte: lo sa, di aver torto. Sa che quel che fa non è giusto. Che è sbagliato, in ogni senso. Che distruggerà se stesso, distruggerà la sua famiglia, l’apocalisse. E tuttavia lo fa. Critica se stesso, odia se stesso, ma continua a fare quel che odia.
Questa follia deve finire. Smettiamola di essere come Creonte. Siamo come Antigone! Perché quando diventa legge l’ingiustizia, allora la resistenza è un dovere. Resistiamo insieme, siamo esseri umani. Ognuno alla sua maniera e nel suo luogo, uniti dalla nostra diversità e dal nostro amore per la vita, che ci unisce tutti.