Un paese dove le persone finiscono quando la propria vita s’inceppa. Un bambino che si aggrappa alla forza incosciente dell’immaginazione per ricordare ai più grandi l’arte di tornare indietro e inseguire la felicità.
“Vinpeel degli orizzonti” (.neo editore, 2018) sembra racchiudere il racconto onirico del tempo sospeso che stiamo vivendo oggi, un (non) luogo dove la normalità è interrotta e tentiamo di ricordare (o dimenticare) quello che è stato fino a qualche tempo prima.
Ho incontrato l’autore, Peppe Millanta, di cui è da poco uscito il secondo libro edito da Ediciclo (2020) “La rotta delle nuvole – Piccole bussole per sognatori testardi”, in occasione del terzo appuntamento del “Festival delle cose belle #StaiacasaEdition“, di cui sarà ospite questa sera insieme al cantastorie Elianto e il poeta-libraio Paolo Fiorucci.
Ne è venuta fuori un’intervista in cui si mescolano vite stravolte, nuvole dense e finali a sorpresa. E una certezza che può cullarci in questi giorni fuori dall’ordinario: “gli “Altrove” non sono mai respingenti, è la paura di raggiungerli che ce li mostra così.”
Peppe, in “Vinpeel degli orizzonti” hai racchiuso una manciata di temi enormi mantenendo la leggerezza di un racconto poetico: il rapporto padre-figlio, la ricerca delle emozioni, la fuga da una quotidianità senz’anima, la capacità dei bambini di guardare oltre e guidare i grandi…cosa rimane a distanza di due anni negli occhi e nelle mani di chi l’ha scritto? Adesso, rileggendolo, avverti la centralità di un tema in particolare?
Tana per me! Ammetto di non averlo mai riletto da quando è uscito, se non qualche stralcio che leggo durante le presentazioni. Limite mio, ma passerei il tempo a rieditarlo all’infinito, a segnarmi modifiche, aggiunte. Insomma, avrei continuato a sollecitare la storia all’infinito, senza darle tregua. A volte infatti mi capita di ascoltare qualcuno leggere dei passi e di rimanerne colpito, come se le parole non fossero più mie. Ad ogni modo hai ragione, il romanzo affronta varie tematiche. Ma forse credo sia portante quella sulla difficoltà delle relazioni, dello stare insieme, del seguire con fiducia la linea che ci lega in maniera invisibile agli altri, soprattutto quando questa linea sembra fragile e sottile perché intessuta di affetto e amore. Notoriamente materiali di cui tendiamo a fidarci poco.
Il romanzo è un intreccio di simboli e metafore che si nascondono dietro ai personaggi. Chi senti più vicino,tra i personaggi, oggi e perché?
Nel libro ci sono molti personaggi che mi fanno divertire, e molti altri capaci di suscitarmi una grande tenerezza. Diciamo che, almeno per me, si è trattata di una bella compagnia. Sicuramente Vinpeel incarna tutto quello che avrei voluto essere: testardo, incapace di arrendersi, disposto a tutto pur di esaudire il suo sogno. Però sicuramente anche il signor Biton, già per il solo fatto di essere un perdente, attira tutta la mia simpatia, come sempre mi accade.
Vinpeel è un bambino finito nella fantastica e desolante Dinterbild un po’ per caso un po’ per necessità. Come tutti i bambini porta con sé una poesia che risulta incomprensibile al mondo dei grandi, fino al gran finale. Quanta realtà c’è in quello che scrivi? Cosa spaventa di più nell’adulto dell’immaginazione del bambino?
Più che paura credo ci sia l’incapacità di riconoscerci in un occhio bambino. Come se fosse qualcosa di irrimediabilmente perduto. Tendiamo a spingere il bambino verso l’età adulta, e investiamo davvero poco tempo a farci trascinare da loro nella direzione inversa. L’immaginazione crea alternative. E poter contare su una alternativa è salvifico. Un investimento sicuro per qualsiasi cosa accadrà.
Essere scrittori è un po’ come riaprire il cassetto magico della propria infanzia riempiendolo delle parole imparate per strada. Quanto pensiero e quanto gioco c’è in quello che scrivi? Rifletti su una tematica o lasci che le pagine seguano il ritmo della tua immaginazione senza troppa serietà?
Gioco tanto. Tantissimo. Mi piace molto chi non si prende mai sul serio. È questione di prendere le giuste misure, di noi stessi e di ciò che ci circonda. Se sei onesto, e ti impegni a misurare in maniera corretta il mondo, la tua persona, ciò che fai, e tutto ciò che ti circonda, non può che venirti voglia di giocare. Perché il gioco è la scala più affidabile per capire le proporzioni della mappa in cui ci muoviamo. Il problema è quando prendiamo misure di noi stessi esageratamente grandi, sproporzionate rispetto al contesto. Lì ci si inizia a prendere sul serio, e in genere sono guai. L’importante è giocare con serietà, e quindi sì, rifletto su una tematica, cerco di sviscerarla al massimo, strutturo al meglio che posso le mie storie. Il momento della scrittura pura è davvero il 20% del lavoro. Prima c’è un gran lavoro che cerca di rispondere a una domanda semplice e spietata: “Cosa voglio raccontare?”
Ora scrivi, suoni e insegni ad usare le parole, ma fino a qualche anno fa costringevi il mare di sillabe su risme di carta intestata in uno studio di avvocati in centro a Roma. Come l’ex Direttore Manoj Kurian del tuo romanzo o il contabile Belluca pirandelliano, ad un certo punto hai sentito una corda rompersi e scelto di scombussolare le carte. Cosa ti ha fatto cambiare idea su cosa-fare-da-grande? Quanta ricerca dell’”Altrove” c’è nel lasciare la sicurezza di un lavoro socialmente rispettato e seguire la propria creatività tra meno certezze?
Diciamo che, come sempre avviene, ho dovuto toccare “con mano” quello che mi aspettava. Per un lungo periodo ero convinto che le cose si sarebbero messe a posto da sole. Poi, dopo l’abilitazione, ho capito davvero che la mia vita sarebbe stata quella, e per me non aveva alcun senso sprecarla così. È stato un passaggio doloroso, per me e per chi mi era vicino. Spesso è difficoltoso accettare i cambiamenti di chi vive con noi. Si è trattata di una piccola rivoluzione copernicana, ma davvero rifarei tutto da capo, nonostante tutte le difficoltà del caso. Ho iniziato a sentirmi “me stesso” molto tardi, ma è il regalo più grande che mi potessi fare. Sicuramente c’è molto “Altrove”, che forse non è altro che un impasto di sogni che sembrano irraggiungibili e poi, a poco a poco, scopri che basta un piccolo atto di volontà: mettere il primo passo davanti l’altro e avviarsi verso di lui. Gli “Altrove” non sono mai respingenti. È la paura di raggiungerli che ce li mostra così.
Hai da poco pubblicato il nuovo libro “La rotta delle nuvole – Piccole bussole per sognatori testardi”. Sono passati anni dall’ultimo viaggio di Vinpeel a bordo della mongolfiera ma sembra che tutto ricominci da lì, persi nel cielo verso un luogo sconosciuto. Cosa c’è di così affascinante nelle nuvole? Troviamo un po’ di Doan, l’amico reale e immaginario di Vinpeel alla costante e disperata ricerca della propria nuvola, anche in quest’ultimo libro?
Si tratta di una collana molto particolare, che sviscera il tema del viaggio in maniera nuova, simbolica e trasversale: non si interroga sulle destinazioni, sui tracciati, ma sull’approccio con cui si può affrontare un viaggio, che è inteso non solo come spostamento geografico ma come modo di approcciarsi alla vita e di spostarsi anche con la mente. Si tratta di una collana cui si accede su invito, e sicuramente la scelta del tema riflette quanto già emerso in Vinpeel. Si tratta però di un libro totalmente diverso, un mosaico con varie storie che girano intorno alle nuvole, elemento fondamentale per coltivare il potere dell’immaginazione cui accennavamo più sopra. Si è trattata di una bella sfida, mi sono divertito parecchio ma non poteva che essere così: quando ci sono le nuvole di mezzo l’impensabile è sempre a un passo.
Nel 2018 hai aperto la “Scuola Macondo – l’Officina delle Storie”, un luogo dove imparare a scrivere e raccontare. Macondo, come il paesello mitologico fondato dai Buendìa di Garcia Marquez e scomparso in un fatale turbine di vento dopo cent’anni di gloria e povertà. Penso a qualche giorno fa, quando la splendida scrittrice Elena Patacchini (“52 Hertz – Manuale d’istruzioni per anima danneggiata”) ci ha lasciato dicendo che “quando si scrive – ma anche e soprattutto quando si legge – si resiste (e tanto) a quella invero fastidiosa condizione per cui si ha una sola vita da vivere”. Tu come vedi lo scrivere? Un gran polverone che poi svanisce alla Macondo o un atto di resistenza all’essenza passeggera delle cose?
Ammetto di non scrivere per resistere. Scrivo per celebrare la vita. A modo mio, con i pochi mezzi che ho, ma scrivo per quello. Mi serve per entrare in sintonia con la vita, anche e soprattutto quando mi appare triste, o ingiusta. Non scrivo per creare attrito. Non mi riesce. Almeno non in questa fase del mio percorso. Scrivo cercando di dare un ordine, un senso a ciò che accade. Probabilmente consolatorio, ma è così. Perché questo è ciò che cerco nelle storie, in fondo. Consolazione. Capace di colmare la distanza tra ciò che è e ciò che vorrei che fosse. Con le storie, sia scritte che lette, faccio questo: mi consolo.
Mercoledì sera sarai ospite del nostro festival online in diretta sulla pagina Facebook di Aware in compagnia di Paolo Fiorucci, meglio noto come Il Libraio di Notte di Popoli. Quanto e perché piacerebbe a Vinpeel una libreria nel cuore di un paesino storico d’Abruzzo aperta anche di notte?
Innanzitutto mi fa piacere che Paolo è un amico. A Vinpeel piace molto questa libreria, e tolgo il condizionale perché l’ha visitata per presentare la sua storia (aveva tra l’altro una mongolfiera di palloncini sulla testa realizzata per l’occasione, che non ho potuto non riportarmi a casa perché era bellissima!). L’esempio del Libraio di Notte ha molto di simile all’Altrove di cui si parla nel libro: quell’intuizione di vedere qualcosa lì dove nessuno vede nulla. Paolo ha avuto questa visione, la testardaggine per raggiungerla e l’intelligenza per farla fiorire. Quindi credo che Vinpeel e Paolo andrebbero molto d’accordo!
Lo so, sono spoiler e non si fanno ma non so quando ricapiterà l’occasione quindi: il papà di Vinpeel poi rincontra la sua bella?
Secondo me sì. Ormai non ha più nulla da dimenticare.