Durante questo periodo stiamo sperimentando un modello di vita diverso, che ha spinto tutti, chi più chi meno, ad ampliare il proprio campo di esperienza per adattarsi all’emergenza. In un mondo votato all’individualismo, ne viviamo una prospettiva estremizzata nella quale il “proprio orticello”, in cui ci piaceva specchiarci e proteggerci, diventa spazio unico e obbligato. Apprendiamo però a fare e pensare a delle cose nuove e ne affiniamo delle altre.
Comunicando online, per esempio, manteniamo contatti, relazioni e amicizie a distanza; oppure acquistiamo quasi esclusivamente su internet, accorgendoci che effettivamente in rete si trova di tutto.
Ci sentiamo protetti dietro a una barriera, che sia una mascherina, dei guanti, un’inferriata o un muro, poiché ci proteggono dall’altro, che percepiamo pericoloso. Allo stesso modo, reputiamo controllo sociale e sorveglianza armata funzionali nella lotta alla minaccia dell’alterità, a cui partecipiamo attivamente nei ruoli di sentinella o inquisitore.
Vediamo poi che da casa si può “andare” in palestra, al cinema, in biblioteca, ai corsi di cucina, di musica, di lingue; c’è chi può persino “andare” al lavoro e a scuola.
Facciamo tutto questo per necessità, non per scelta.
Ora che, forse, possiamo cominciare a discutere sul “post-emergenza”, sembra che ci riapproprieremo del potere di scegliere, anche se non è chiaro (quando mai lo è?) in che misura. Dopo tanti sensi unici, ci ritroveremo nuovamente di fronte a dei bivi, che saremo chiamati ad affrontare tanto come individui, che come comunità, stati e umanità intera. Già, perché nella sua drammatica portata questo virus ci ha imposto uno stop, il mondo ha dovuto fermarsi, sperimentare, come detto, un modello diverso, e ora possiamo decidere che fare, come ricostruire una società, a tutti i suoi livelli. Non è propriamente un’eventualità, un bivio, che capita di frequente.
Oltre ad augurarmi che questa pausa obbligata sia stata occasione per riflettere su ciò che eravamo “prima”; mi viene abbastanza naturale pensare che una discriminante fondamentale, nella scelta sul come impostare il “dopo”, sarà quello che avremo compreso dall’esperienza dell’emergenza. Insomma, che cosa abbiamo imparato che ci servirà da qui in poi?
Evitando di azzardare, per timore e complessità, scenari sulla dimensione macro di questo crocevia, rifletto sulla prospettiva più individuale e interpersonale, in ogni caso connesse a quella globale e per cui non nascondo ugualmente un po’ di apprensione.
E se pensassimo che, dopotutto, non è poi così male? Che da soli, in fin dei conti, bastiamo a noi stessi?
Potremmo scegliere di proseguire su questa via (e anche quella pre-Covid19) dell’isolamento, dell’egoismo, del sospetto e della paura. Potremmo decidere che della presenza degli altri non c’è poi bisogno, se si vuole comunicare, stare in compagnia e pure fare aperitivo, basta piazzarsi davanti allo schermo. Potremmo scegliere di non acquistare più nulla alla bottega di Mauro, in fondo alla via, ma di ordinare tutto su Amazon, che costa pure meno. Potremmo decidere che per svagarci basta iniziare un’altra serie tv, impastare un’altra torta o seguire un’altra lezione di fitness su YouTube.
Potremmo scegliere di costruire ancor più barriere, ancora più alte, tra continenti, stati, quartieri e case; fino a rinchiuderci nella nostra fortezza, da cui far capolino solo per ritirare i pacchi del corriere, spiare il vicino e verificare se la pattuglia è presente all’angolo della strada. Potremmo decidere che l’altro è sbagliato e pericoloso.
Mi fa paura questa eventualità, le sue conseguenze e il fatto che possa far gola a molti mascalzoni potenti.
Mi rendo però conto che questa emergenza non è stata solo fare qualcosa di “nuovo” ma anche rinunciare a qualcosa di “vecchio”: un abbraccio, una passeggiata, a volte il salario e persino la vita di una persona cara.
Certamente abbiamo imparato qualcosa anche da queste rinunce, forse perché ci siamo accorti che, per quelle, adattarsi non è possibile, o comunque che da soli è molto, molto dura.
Potremmo allora accorgerci che parlare su Skype non è come stare insieme per davvero; che la chiacchiera con Mauro e il sorriso con cui accoglie in bottega valgono i centesimi in più di spesa; che una passeggiata in un bosco ci fa sentire più in forma degli addominali in salotto.
Potremmo anche costatare che un paese sicuro non è quello con un poliziotto ad ogni incrocio e un esercito ben armato alla frontiera, ma quello che garantisce un lavoro stabile e ben retribuito, strutture sanitarie e scolastiche accessibili e a norma e personale educativo, sociale e sanitario che soddisfi bisogni e diritti di tutti.
Potremmo pure renderci conto che per quanto senza muoverci di casa possiamo provvedere alla maggior parte delle necessità e riempire con prodotti digitali e a domicilio la nostra gabbia dorata, si tratta di sopravvivenza, non di vita.
Forse l’angoscia che percepiamo in questi giorni non è dovuta alla mancanza di oggetti, che come visto è ampiamente compensabile, ma dalla mancanza di relazione con l’altro, vera, libera e spontanea.
Per affacciarci a quel bivio potremmo allora riconoscere che l’altro è salvezza, è vita.
[Matteo partecipa alla rubrica #CaschiBianchiInQuarantena dedicata ai membri del servizio civile universale tornati dall’estero attualmente in Italia]