Quarantena senza stigma / messaggi dal passato

Da qualche giorno è tornato il freddo e la primavera sembra essersi rintanata anche lei in un angolo in attesa di un momento più felice per sbatterci in faccia la sua bellezza. I momenti di sole e aria in balcone erano diventati il mio rito quotidiano, l’unico spazio in cui sentirmi per un attimo connessa al mondo lì fuori. Con il sopraggiungere di grigio e vento, occhi e testa si sono fatti più pesanti e forse anche per questo, mi dico, i momenti neri durante la settimana appena trascorsa sono stati più frequenti. Questa mattina però c’era di nuovo il sole. Un sole grande, accogliente, interrotto solo a sprazzi dall’ombra delle nubi, come una coperta sfilacciata attraverso la quale ogni tanto penetra uno spiffero a solleticarti le caviglie.

Sono rimasta in balcone un’oretta, mezza nuda, scalza, perché volevo sentire tutto, il tepore della primavera che faceva di nuovo capolino e i soffi improvvisi di freddo tra le dita e i capelli. Sola, con la tazzina del caffè in una mano, il drum nell’altra, a osservare i serpenti di fumo salire in alto e disperdersi tra l’azzurro pallido. Ho messo le cuffie e sono sprofondata ulteriormente in quel fazzoletto di cemento trasformatosi in una zattera, in un ponte magico tra me e l’esistenza, me e il mondo. Ho passato un tempo indefinito così, con la musica nelle orecchie e la testa penzolante, ad aggrapparmi a me stessa e alla sedia quasi come avessi paura di perdere quell’isola felice. Per un momento ho pensato che sarebbe stato impossibile rientrare dentro casa. Non chissà per quale ragione. Semplicemente impossibile.

Una patina tremolante si è frapposta tra me e i palazzi di fronte. Ho sentito l’umido sulle guance, ora appena bagnate, il secondo dopo come travolte da una diga appena esplosa. Senza far rumore, senza che il mio volto si contorcesse in smorfie di insofferenza, così, semplicemente, le lacrime sono iniziate a scendere e non ho potuto fare niente per interromperle. Odio mostrarmi così, perciò ho sperato con tutta me stessa che nessuno arrivasse in quel momento e mi trovasse in quello stato. Mi sono alzata di scatto picchiettando con una mano sulle cosce addormentate, mentre con l’altra ho iniziato quasi a colpirmi gli occhi, come a voler ordinare loro di smetterla, di tornare ad arginare la tristezza trattenuta fin lì. Ce l’ho fatta. «E ora?».

Allungando di nuovo una mano ho raccolto una vecchia agenda che nel frattempo avevo portato con me in balcone. In questi giorni mi capita spesso di rileggere miei vecchi diari. È una cosa che non faccio mai, paradossalmente mi sembra di violare l’esistenza di qualcun altro, di accedervi senza permesso. È strano, lo so. Rileggersi è strano, straniante. Non so cosa mi spinge ora a farlo, forse l’incertezza estrema e materiale del momento mi porta a mettermi alla ricerca di una traccia coerente nella mia vita, un nastro rosso che connetta pezzi sparsi andati dimenticati da ricollocare per donargli senso nuovo. Forse ho solo bisogno di parlarmi, di tornare in dialogo con me stessa perché da quando tutto questo è cominciato non ci riesco più. Come sempre non so dire se questo sia un bene o un male, non so dire se certe cose che faccio siano davvero per stare meglio o inconsciamente ferirmi, colpirmi, pur di riuscire a esternare in qualche modo ciò che sento e provo, anche se nel modo sbagliato e confondendolo con altro. Perché sento proprio ora il bisogno di incontrarmi, rispolverando per di più miei pezzi di vita che in fondo vorrei solo dimenticare? Non so.

2012. Un anno di merda. Quando il mio mondo era comunque fermo, forse più di quanto non lo sia ora. Mi leggo. Sono io, questa qui? Sì, sono io. Sfoglio le pagine, scorro tra parole incerte e convulse, mi sembra un’altra vita. Arrivo ad una nota che risale a quell’inverno, gelido dentro e fuori, me lo ricordo bene. «A marzo sarò felice». Senza accorgermene quasi mi trovo a sorridere. Ovviamente non andò così. E quel messaggio dal passato mi sembra ancora più assurdo e ingenuo ora, alla luce di quello che è stato negli anni a venire ma anche di quello che sta succedendo ora, ora che è di nuovo marzo e il mondo sembra sprofondato in una stasi allucinata. Un mondo – il nostro – che guarda dentro se stesso per scoprirsi fragile, inerme di fronte all’incertezza ma anche alla grandezza dell’esistenza, della natura e delle sue leggi. Tutto fuorché felice.

Però quelle parole hanno soffiato anche altro in me, come un fermento in essere che forse aspettava proprio questo giorno per crescere ed espandersi tra le mie mani. La felicità. Ora più che mai mi sembra una parola assurda da pronunciare, quasi una bestemmia. Osservo le nuvole che scorrono veloci trascinate dal vento, i rami che si piegano come a voler raggiungere la mia isola. Sono mai stata felice – davvero? Quando è successo? Durante la terapia c’era un esercizio che facevo ogni sera, prima di andare a dormire. Elencavo nella testa qualcosa per cui essere grata della giornata appena trascorsa. Per mesi e mesi questo è rimasto solo un pensiero, una volontà che restava monca appesa nell’aria, senza risposta. Poi piano piano ho iniziato a visualizzarli, quei motivi. E dentro di me, molto lentamente, è tornata a spuntare la primavera. Ancora annebbiata e incerta, spezzata da geli improvvisi e oscurità, eppure presente, anche se a tratti. Come ora, come oggi.

La felicità, dicevo. Quando sono stata felice?

Quando mamma è tornata dall’ospedale.

Quando da piccola cantavo Battisti con papà in macchina, mentre andavamo al mare.

Quando ho visto la neve luccicare al sole sulle montagne abruzzesi, immobile e perfetta come un lago di cristallo, e la vita mi è sembrata semplicemente troppo colma di bellezza per disprezzarla come stavo facendo.

Quando mia sorella è nata e ho capito il senso dell’amore.

Quando mi sono finalmente perdonata.

Il giorno della mia laurea, quest’estate.

Ecco. Sono rimasta con la sensazione di queste immagini a riempirmi il torace. E d’improvviso, quella nota scritta dalla me del passato ha cambiato significato sotto ai miei occhi. Non importa come sia andata poi, quello era un seme gettato al vento un po’ a casaccio, in attesa di essere accolto dalla me di oggi. Perché se quella che ero, e che mi parla in questo momento da un universo sprofondato in un buco nero, è riuscita, in quel disastro, a convincersi di andare incontro alla felicità, tanto da scriverlo a chiare lettere, allora può farlo anche la me del presente.

È marzo, ora non sono felice, ma lo sono stata. Questo significa che posso esserlo ancora.

Fuori si addensano di nuovo le nubi, il grigio è tornato. Non importa. Anche se ora non riusciamo a vederla bene, la Primavera è comunque qui.

 

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