C’era una volta una terra che benediva chi vi cercava rifugio. Una terra ricca e fertile, sacra al punto da divenire necessaria. Un luogo a metà tra gli uomini e gli dei, corridoio per le nuvole bianche e soffici posate sulle vette brune affacciate sul mare. Su questa terra vi si scioglieva come neve fina l’istinto santo all’accoglienza.
Ulisse, Glauco, Diomede, la stessa Antigone: esempi cristallini di un legame viscerale tra la persona e i brandelli di sabbia e fango che ne legano le palme dei piedi alla propria storia. L’ospitalità, “Xenìa”, nella mitologia greca, ovvero la storia vissuta e sognata dall’intero popolo, rappresentava il contrappunto dell’accoglienza gratuita offerta da Gaia, la divinità della terra. Un valore tanto sacro da farsi una linea invalicabile, un puntello impossibile da rimuovere nei ricami delle tradizioni indissolubili del popolo. La diversità dello straniero, in questa prospettiva al contrario, rappresentava un nuovo sguardo con cui arricchire la propria casa, un punto di vista da accogliere per donare luce ai locali stantii del sé. Negare ospitalità voleva dire bestemmiare agli occhi delle divinità e rinunciare a quella contaminazione necessaria capace di donare linfa vitale.
A millenni di distanza, negli stessi brandelli di terra, sugli stessi rigurgiti di mare, si sta consumando la più grande offesa a tutto ciò che la storia mitica ha rappresentato. Le immagini dei gommoni in balia del mare colmi di profughi presi a sportellate dalle motovedette delle autorità elleniche poco lontano l’isola di Lesbo entrano nella pelle e lasciano il segno di un abbrutimento senza precedenti. Lì dove era il rito sacro dell’accoglienza è in scena oggi la capitolazione della natura umana, persa nelle paure di una contemporaneità refrattaria. Lì dove l’immagine di una umanità feconda si è fatta modello per la cultura occidentale, oggi crollano gli ultimi argini di contenimento della sconsiderazione più becera.
Perché? Cosa è crollato nei secoli? Dove si è nascosto l’alito umano della Xenìa? Chiudo gli occhi e rifletto sulle possibilità di ognuna di queste domande. Infine trovo la chiarezza indifferente della realtà: stiamo assistendo alla degradazione animalesca del cittadino moderno. L’aumento del benessere tecnologico ed economico sembra aver reso ancor più cupa e vivace l’eco dei richiami primordiali. Quanto più abbiamo tentato di allontanarcene e più a fondo siamo finiti nel vortice di una retrocessione verso gli stati irrazionali che fuggivamo. Il nostro spirito di comunità si è sgretolato, il nostro sentimento di filantropia è stato abortito, la nostra capacità di specchiarci nell’altro è divenuta un vezzo inutile.
Non si tratta di sicurezza, non si tratta di ideologia, non si tratta di politica. È un esercizio collettivo di imbarbarimento. Un gioco perverso che ha contagiato pezzi rotti d’interi stati e che a Lesbo si sta rivelando in tutta la sua oscena disumanità. Qualcosa che è stato covato in decenni di accentramento dell’attenzione sull’individuo, fino a quando lo sterile focalizzarsi sul punto ha fatto perdere la visione dell’insieme. L’estraneo è passato dall’essere un valore, un contrappunto del sé, a divenire una minaccia, un oggetto che ingombra e spaventa.
Che tutto questo stia accadendo dove storicamente trova radici lo stesso sentimento di indignazione che gli si oppone come antitesi è un simbolo dei tempi vuoti e controversi che abitiamo. Dove fino a ieri c’è stata terra sacra ora c’è il nome del peccato. Nel naufragio della ragione a noi non resta che cercare bricioli d’umanità sepolta tra eredità sopravvissute. La storia che ci ha fatti società non può svanire in un fazzoletto di mare.