Cosa significa essere “umani”? Qual è il nucleo più puro, inscalfibile, dell’esperienza che facciamo, in quanto uomini e donne, dell’esistenza? Ciò che, in ultimo, potrebbe salvarci persino dall’inferno sceso in terra? Saranno queste le domande che dev’essersi posto Primo Levi, piombato nell’orrore di Auschwitz.
La bellezza salverà il mondo, abbiamo spesso scritto. Forse questa dichiarazione, troppo ingenua per qualcuno, è condannata ad essere smentita, a rimanere utopia incompiuta, valida solo a tratti nello spazio e nel tempo ed in maniera incostante. Eppure, fu proprio alla bellezza che Primo Levi s’aggrappò con ogni fibra del suo essere per preservare dentro di sé quella scintilla d’umanità resistente anche nel buio pesto del lager.
Lì, tra fango e morte, nel luogo dis-umano per eccellenza; lì, tra corpi emaciati e orbite incavate; lì, tra puzzo di morte e il frantumarsi di ogni naturale legame di fratellanza; lì, tra esseri svuotati, senza più nome né passato; proprio lì, dicevamo, lo scrittore e chimico torinese prese a recitare ed insegnare i versi con cui secoli prima il Sommo Poeta compose la sua personale discesa negli abissi infernali. Una discesa animata dalla certa speranza di poter tornare poi a «riveder le stelle» e dalla consapevolezza di esser chiamato a fare qualcosa di grande.
Ebbene, fu trattenendo nella mente le parole della Divina Commedia, ripetendole, facendole risuonare sottovoce come una preghiera – laica, umana – da declamare in gran segreto, che Levi si riscoprì irrimediabilmente uomo. Con una storia, riletta e riflessa attraverso il racconto dantesco, ed un nome, stretto tra i denti e impigliato nelle pupille stanche ma ancora fiere.
Imprigionato tra i gironi infernali, ordinati non dalla giusta mano divina ma dall’odio dell’uomo nei confronti del suo simile, Levi s’impedì con tutte le forze di sprofondare in quella bestialità a cui i nazisti volevano condannarlo tentando di estirpare dal suo petto e dagli occhi la consapevolezza della propria dignità, quel moto libero dello spirito umano che sempre guarda più in là, oltre quelle colonne d’Ercole di un destino imposto da altri che pare essere definitivo, ma davanti al quale, nonostante tutto, non ci si può piegare, non si può rinunciare ad affrontarlo, a voler con ostinazione immaginare un “poi”, un “di là”, per quanto folle o ridicolo possa sembrare.
Il limite imposto dal lager pareva essere definitivo. Davanti ad esso – provate ad immaginare – ecco un uomo che recita Dante nel bel mezzo di Auschwitz. Perché? Perché, pur davanti alla sofferenza, all’umiliazione e alla privazione più atroce, pur davanti alla prospettiva di una morte quasi certa e al bisogno – il più immediato – di trovare di che sfamarsi e coprirsi per non crepare, Levi capì che cercare di soddisfare queste necessità non poteva certo bastare per salvarsi dal lager.
Levi capì che tutto questo poteva bastare semmai per trascinare per il campo quel corpo rattrappito e malato un giorno in più, sottraendolo così alla morte biologica, ma che ci sono tanti modi per morire e quella a cui miravano i nazisti non era tanto la morte fisica, ma prima di tutto quella dello spirito: l’annichilimento della propria dignità di persona, il degradarsi dell’esistenza ad una dimensione animalesca, lo spegnersi di ogni senso di appartenenza nei confronti di qualcosa di più alto, più bello.
È proprio nella Bellezza della poesia che Levi ancorò il suo sentirsi umano, il suo percepirsi come essere dotato di coscienza, esperienza, ricordi, ma soprattutto di quella spinta innata alla conoscenza, all’elevazione di sé, al sentirsi parte di una natura che ci ha fatti non «a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Fu questo a salvare lo scrittore, almeno in quel momento: quella ricerca, quella ostinazione a non volersi vedere né pensare bestia ma uomo, nonostante la miseria e l’imbruttimento, nonostante tutto urlasse e pretendesse il contrario.
Ed è questa la grande lezione che l’autore di Se questo è un uomo ci consegna oggi, come un pungolo nel costato, come un monito che s’affianca all’altro imperativo: non dimentichiamo ciò che è stato, a che degradazione infernale l’essere umano è stato capace di scendere.
Sì, perché c’è un’altra verità che ci viene incontro, netta e limpida: rinunciando alla Bellezza l’uomo condanna se stesso alla bestialità; violentando e annichilendo il suo simile, degrada il proprio io e tradisce quella storia comune che ci rende in fondo inestricabilmente vicini l’uno all’altro, anche se non ce ne rendiamo conto. Chi impone all’altro di rinunciare alla propria umanità, rinuncia nel mentre anche ad un pezzo della sua. Sempre.
E il mondo sprofonda. E ne perdiamo in bellezza, tutti quanti.
Ed è un circolo vizioso, perché solo nutrendoci di bellezza possiamo allenarci a riconoscerla, a darle spazio affinché si espanda vivificando questo mondo, per costruirne un altro in cui sia l’esistenza di un lager a trovarci spaventati e sgomenti, e non quella dell’altro essere umano.
Ricordiamoci di questa storia quando tenteranno di convincerci che, in fondo, della poesia, della bellezza e di Dante possiamo fare a meno.