Qualche giorno fa mi sono ritrovata a parlare con una persona di quanto sarebbe più bello, vero e semplice se ciascuno di noi riuscisse ad esplicitare, senza costruzioni o sovrastrutture, il proprio desiderio all’altro. Si discuteva a proposito di sessualità e relazioni, di autocensure inutili e della gioia “primordiale” che deriverebbe dal poter semplicemente vivere tutto questo apertamente, senza paura di essere fraintesi o sentirsi in qualche modo minacciati o definiti dal desiderio dell’altro.
Ho pensato allora a come me la vivo io, a quanti filtri metto tra me, il mio desiderio, gli altri. Ho pensato a quante costrizioni mi autoimpongo, se lo faccio, e a quante volte invece mi trovo a vivere chi sono e cosa voglio in un modo così diretto e tangibile che spesso spaventa chi ho davanti. Non saprò mai leggermi chiaramente, avverto sempre che c’è una parte di me che gioca a nascondersi dal mio stesso sguardo, sfuggente come d’altronde spesso mi riconosco, glaciale il più delle volte per necessità, ma anche capace di slanci inaspettatamente vividi, quasi famelici.
Tornando verso casa sentivo il freddo accarezzarmi le ginocchia, la birra battermi leggermente nelle tempie, le mani nervose e le gambe frenetiche come sempre mi accade quando sprofondo in pensieri che non so se ho troppa voglia di affrontare nel momento in cui emergono. Questo perché la mia mente ha l’abitudine di ragionare per salti, per connessioni spesso arbitrarie, finché tutto diventa confuso, annodato, facendosi di nuovo inestricabile. Allora o lascio perdere o mi lascio ingoiare. Quella sera è andata in quest’ultimo modo.
Ho iniziato a pensare allora a quanto la mia condizione mentale influenzi le mie relazioni e il modo in cui mi pongo rispetto al mio desiderio e a quello degli altri. A quante barriere io abbia costruito nel tempo, quante ne abbia demolite, perché, con chi e se ne valeva davvero la pena. Ho ripensato alle volte che mi sono lasciata ferire senza battere ciglio, lasciando la gente nella convinzione che non m’importasse un cazzo, ma anche alle volte in cui, per paura di essere qualcosa di troppo grande e impegnativo da gestire, ho lasciato che i miei desideri e sentimenti, dai più superficiali ai più profondi, non trapelassero mai, nemmeno per sbaglio. Ho ripensato a quante volte io abbia invece censurato i miei bisogni perché a loro ci penso io, non tu, non tu e nemmeno quell’altro; a quanti pezzi di me ho lasciato sparsi in notti ambigue, occhi sconosciuti ma un po’ più veri degli altri, senza ricercarli ancora perché non è quel che voglio, lo so, ma non lo so, è davvero così?
I capelli si sono di nuovo impigliati tra queste nubi di fumo e dubbi, contrasti e mezze verità, nomi, sorrisi, messaggi e flash di corpi e parole e discorsi che ho trattenuto quel tanto che bastasse per sapere di non essere presente davvero, di non desiderare affatto un contatto, perché già viziato in partenza. E quando quel contatto l’avrei voluto, l’ho lasciato sfilacciarsi e perdersi tra non detti, paure di perdere il controllo, ansie di essere vista troppo e troppo a fondo, o non abbastanza. Spesso la gente mi restituisce ritratti e impressioni di me lontani anni luce da chi e cosa sono davvero, questo mi fa sempre riflettere su quanto io sia diventata brava a dissimulare come meccanismo di difesa. Poi ci sono quelli che pretendono di aver capito tutto e subito dopo aver appena rivelato due o tre spaccati di me e sono già lì a imbrigliarmi in una serie di categorie e idee che non sono mai davvero mie, perché edificate all’unico scopo di catturarmi in qualche modo, porre un marchio sulla mia persona, definire un’appartenenza. Ed è in quei momenti che mi ricordo perché dissimulo e censuro. A quale prezzo devo ancora capirlo.
Però sarebbe bello, bello per davvero, poter dire semplicemente: sono questa qui, ecco. Guardami, fallo sul serio, senza sovrastrutture, idealizzazioni, aspettative. Lasciami essere, permettimi di essere nuda, di quella nudità senza vie di fuga né rimedio, quella che ti costringe a guardare senza possibilità di rinchiudermi in qualche sterile recinto accomodante. Tanto li scavalco sempre, un modo lo trovo. Essere nudi, invece, in tutta la propria schifezza e meraviglia, è essere messi faccia al muro. E il muro non lo scavalchi, non puoi. Il muro ti obbliga a voltarti e vedere chi c’è davanti a te.
Forse è questo che alla fine vorrei. Aver voglia di ritrovarmici, contro quel muro. Pensare che ne valga in qualche modo la pena.
Desiderare di essere scoperta. Vivere la brutalità di qualcosa di vero perché libero, violento perché senza scampo.
Nello stesso momento in cui lo penso, lo rinnego.
I desideri sono roba complessa, si sa.
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Immagine in evidenza by Shaza Wajjokh