«Però non sembri depressa».
Avessi una moneta per ogni volta che mi sono sentita dire questa frase, ora sarei a Fontana di Trevi a riversare cascate di spiccioli nella speranza di aumentare almeno di un po’ la possibilità che qualche strambo desiderio dei miei si avveri sul serio. Il primo sarebbe senza dubbio quello di non dover più sbattere il muso contro affermazioni del genere. Il secondo sarebbe riportare in vita Dostoevskij per dirgli che mi ha cambiato la vita e che ciò in qualche modo dovrebbe contare nelle sorti dell’umanità, ma questa è un’altra storia. Torniamo a noi.
Cosa dovrei rispondere? «Grazie, allora non sembro proprio così fottuta?». Oppure mettermi nella paradossale posizione di dover “difendere”, in qualche modo, verità e consistenza del mio male?
È per questo che, generalmente, non rispondo. Mi limito a sorridere, inclinando un po’ il capo e portando lo sguardo altrove, come faccio sempre quando inizio a sentire lo sfarfallio del fastidio che mi invade le sinapsi. In quei momenti mi sento terribilmente in trappola, incastrata inevitabilmente, in un modo o nell’altro, in una posa, cristallizzata in un’identità che non mi appartiene mai davvero del tutto, perché incompleta, banale e priva di complessità. Sto bene e sto male: due modi di essere che il mondo vuole tra loro incomunicabili. Sana e Malata, Depressa e Normale: maschere che ti si conficcano nella carne viziando rapporti e conversazioni, e se ne esce a fatica.
Essere cucita in categorie che mi bloccano, di qualsiasi tipo, mi azzera. Sento il respiro mancarmi, ma l’ansia non c’entra. È una sensazione nauseante di prigionia, la consapevolezza di essere sempre o l’una o l’altra cosa, mai entrambe e molto altro ancora, per chi ho davanti. E questo dipende sempre da motivi del tutto casuali, fortuiti: come ti presenti allo sguardo altrui “la prima volta”; cosa decidi di condividere, esplicitare o censurare; in che momento quella persona intercetta la tua esistenza e come fa esperienza di te nell’istante di quell’incontro e dei prossimi.
Ho provato questa sensazione, chiarissima, quando mi recai la prima volta da uno psichiatra. Tutte quelle caselle, quei nomi pomposi che stavano ad indicare tratti della mia presunta personalità, quelle domande nette e monolitiche, mi fecero sentire prigioniera al mio stesso cospetto. Sarò matta, ma in quel momento, pur trovandomi in una condizione di assoluto malessere e bisogno, avrei voluto dirgli sì, ma vedi, io non sono solo questo. Non sono solo depressa, ansiosa, borderline, problematica, sadomasochistica. Io leggo un sacco di poesie, sono una persona generosa, mi piace ballare, mi piacciono gli alberi, amo profondamente questo Universo del cazzo che ora mi sta giocando questo scherzo orrendo. Ricordo gli occhi umidi, parole come sabbia sulla lingua a prosciugarmi da dentro, un senso di tristezza completa e definitiva. Guardavo le mie mani e mi sembravano quelle di un’altra.
Al contrario, la sensazione si ripresenta ogni qual volta mi si costringe a dover dimostrare che sì, guarda un po’, sono depressa davvero. Anche quando mi sobbarco di impegni in giro per questa città pazza e incredibilmente li porto a termine tutti, o quando esco con gli amici e passo la serata a ridere e bere; quando faccio la buffona o sono la prima a offrire supporto e tentare di lenire le ferite altrui; quando indosso quel pantalone di pelle che adoro e vado a ballare con un rossetto un po’ più acceso sulle labbra, o quando mi lascio andare alla nobile arte della seduzione e alla spontaneità della passione genuina e senza regole.
Sono depressa quando decido di andare a teatro, al museo, al cinema, ad un concerto.
Sono depressa quando partecipo a manifestazioni e mi impegno nel sociale.
Sono depressa quando scopo o quando amo, o entrambe le cose.
Sono depressa quando faccio progetti, quando creo, invento, mi lancio a braccia aperte nel mare delle possibilità con fiducia e ottimismo, persino.
Sono depressa, sì, ma sono anche tanto altro.
E vedete, mentre scrivo mi rendo conto di quanto non stia tenendo in considerazione, come di solito faccio, l’importanza del linguaggio, col rischio di trasmettere a mia volta un messaggio a suo modo sbagliato. Allora mi correggo subito: io non sono depressa, io soffro di depressione. Ecco, forse così è più chiaro. La depressione non mi definisce tout court, come d’altronde tutto il resto che fa parte della mia vita, come ogni aspetto della mia personalità, psiche, anima… chiamatela come vi pare.
Allora, partendo da qui, rivoluzionando un minimo il nostro linguaggio e il modo in cui siamo abituati a pensare la depressione, riusciamo forse anche a fare un passo in più e ripensare anche il modo in cui percepiamo chi di depressione soffre, così da non creare altre maschere rigide in cui collocare il prossimo, ma imparare a vederlo, e vederci, in tutta la complessità che ci caratterizza, e a farne esperienza secondo questa prospettiva.
Perché lo stigma sulla malattia mentale è un’arma a doppio taglio e non possiamo anche combattere contro l’etichetta del “depresso modello”, una volta che riusciamo a rendere valida agli occhi altrui la nostra esperienza. La rappresentazione della depressione e di chi ne soffre, al momento, continua a mancare di verità: si oscilla così dalla sua riscrittura in chiave glamour, cool o quasi “romantica”, ad un’altrettanto falsata visione tragicamente lampante e senza sfumature.
Quello che non vi dicono è che non è sempre così facile decifrare i segnali, che la depressione non ha un solo volto ma molteplici, tutti diversi tra loro e in qualche modo in apparente contraddizione. Non vi dicono che si può amare, sognare, studiare, ridere, parlare di speranza e impegno anche soffrendo di depressione.
Vorrei essere libera dal dovere di giustificare la mia esistenza a tutti i costi.
Libera dall’imposizione di scegliere una posa più comprensibile e catalogabile agli occhi del mondo.
Libera dalla costrizione di mutilare la mia complessità nello sforzo di essere più rassicurante per chi mi guarda, parla e tocca.
Libera, come nonostante tutto ho l’arroganza e la pretesa di pensarmi.
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
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Immagine in evidenza: illustrazione di Shaza Wajjokh.