Ricorre oggi 20 novembre il Transgender Day of Remembrance 2019 (TDoR), una giornata internazionale per commemorare le vittime dell’odio transfobico, ma anche un’occasione in più per riflettere sui pregiudizi e le forme di oppressione che continuano a strutturare le nostre società ai danni delle persone transgender o non-conforming. Come ogni anno, è stato rilasciato il Trans Murder Monitoring, il report ufficiale elaborato da Transrespect versus Transphobia Worldwide con gli aggiornamenti sugli omicidi delle persone trans* nel mondo.
Secondo il monitoraggio annuale, tra l’1 ottobre 2018 e il 30 settembre 2019 sono state uccise nel mondo 331 persone transgender / non conformi, contro le 369 dell’anno scorso. Spetta ancora una volta al Brasile il tragico primato di Paese con più omicidi, con 130 persone assassinate. Al secondo e terzo posto, rispettivamente, Messico (63) e USA (31). L’Italia, che nel 2018 con 6 omicidi si è trovata al secondo posto in Europa, si attesta invece nel 2019 come uno dei Paesi con meno incidenza, con 1 omicidio di natura transfobica.
Quanto emerge dal report annuale è, inoltre, il persistente intreccio tra più forme di discriminazione e oppressione, che pesano con una violenza brutale e ancora più marcata sulla comunità T, spesso privata dei diritti umani più basilari, soprattutto nel caso di persone già appartenenti a minoranze quali migranti, rifugiati, sex workers. Infatti, il 61% delle vittime totali registrate appartengono a quest’ultima categoria. Pregiudizi, stigma ed esclusione creano inoltre un corto-circuito che spinge molte persone transgender verso marginalità, precarietà, povertà: ecco allora che la “scelta” del marciapiede appare spesso l’unica possibile, laddove le pesanti discriminazioni non favoriscono un accesso semplice al mondo del lavoro. A questo occorre aggiungere una forma di violenza ancora più subdola e spesso invisibile: quella burocratica. I dati raccolti dal report, infatti, sono da considerare per difetto: in molti Paesi, leggi disumane conducono alla pratica del misgendering (attribuzione del genere sbagliato), rendendo impossibile avere un quadro più completo o anche solo rendere giustizia alle persone assassinate, con una sovradeterminazione ulteriore di corpi e identità persino post mortem. Oltre a ciò, la situazione di invisibilità in cui si trovano a vivere le persone transgender diventa un ostacolo ulteriore nel caso di indagini, informazione e sensibilizzazione: spesso semplicemente la violenza da loro subita è ignorata, nascosta e non trattata con uguale scrupolo e attenzione di fronte alla comunità (qui il report completo / qui la lista con i nomi delle vittime).
Dato che chi qui scrive non appartiene alla comunità trans*, occorre assolutamente compiere il passo successivo e domandarci: cosa possiamo fare noi, in quanto individui cis, per supportare le lotte e i diritti delle persone transgender nel nostro Paese e nel mondo? Allora ecco qui alcuni punti per iniziare a impegnarci nel concreto e generare consapevolezza e cambiamento. Sentitevi liber* di aggiungere altri obiettivi, consigli e riflessioni su come essere alleati e alleate in questa battaglia di umanità che ci riguarda tutt*.
Il linguaggio: il misgendering è una pratica violenta, rispetta la persona!
Partiamo dalle basi. Una delle pratiche più diffuse nella nostra società, colpa anche di una scarsa consapevolezza a riguardo, è quella del misgendering, ovvero attribuire alla persona che abbiamo davanti un altro genere rispetto a quello in cui lui/lei ha scelto di identificarsi. Da sempre come Aware sosteniamo l’idea che è dalle parole e dal linguaggio che dovremmo cominciare per un cambiamento, perché è lì che s’annida la radice prima della violenza. Una violenza che dalle parole germoglia, traducendosi in atti. E se di linguaggio ostile dovremmo preoccuparci, tanto più occorre fare attenzione a quelle parole che servono a “descrivere” identità. Chiamare “uomo” una donna transgender, e viceversa, ad esempio, è violenza, come anche usare i pronomi sbagliati o il nome appartenuto alla persona prima della transizione o del “coming out” come individuo trans*. Rispettare la persona significa innanzitutto rispettare il suo inviolabile diritto ad autodeterminarsi. Semplice.
Domande ossessive, intime, invasive sul corpo e sull’esperienza dell’altr*
Saremo brevi su questo punto. Come in qualsiasi rapporto interpersonale, le domande inappropriate che non rispettano i confini altrui – fisici, emotivi, mentali – sono semplicemente una forma di abuso, oltre che un atteggiamento profondamente maleducato. Spesso, presi dall’ansia di disvelare e categorizzare chi abbiamo di fronte, ci dimentichiamo di una cosa tanto semplice quanto importante: che davanti a noi c’è un essere umano, innanzitutto, con la propria storia, i propri sentimenti e fragilità. Perché non pensiamo a concentrarci su questo e a conoscere l’altr*, piuttosto che ossessionarci con etichette o, peggio, bisogni di soddisfare pruriti? Pensiamoci.
Riconoscere il proprio privilegio in quanto persone cis e lavorare per smantellarlo
Quando s’accenna al concetto di “privilegio”, usualmente le persone sobbalzano dalla sedia in un moto di piccato dissenso e fastidio. Cosa significa riconoscere il proprio privilegio? Significa che non siamo autorizzati a soffrire, stare male, rivendicare i nostri problemi o lamentarci di ingiustizie e discriminazioni che a nostra volta subiamo? Significa che la nostra vita scorre liscia e tranquilla senza dolore o problemi? No, ovviamente. Significa semplicemente essere consapevoli del fatto che godiamo di una serie di privilegi e diritti, in questo caso rispetto alla comunità trans*, che siamo abituat* a dare talmente per scontati da non riuscire più ad esserne coscienti. Ecco allora che con grande fatica e tramite un lavoro che richiede onestà e umiltà possiamo imparare a problematizzare il nostro privilegio e, di rimando, riconoscere radicalmente l’altrui oppressione, al fine di impegnarci, insieme, per una società più giusta ed equilibrata, dove le mie libertà sono anche quelle degli/delle altr*. Possiamo farci questa domanda oggi: di quali privilegi godo rispetto ad una persona transgender? Perché? Cosa comporta questo? Non per fustigarci e vivere di sensi di colpa: ma per capire dove e come agire, quali sono i nodi critici e i sistemi di oppressione da mettere in discussione.
Sostieni la comunità Trans* apertamente e alla luce del sole, non solo nelle tue nicchie ideologiche
Punto importantissimo. È bello poter essere in un ambiente sano e aperto in cui sostenere i diritti altrui senza troppa problematicità. Tuttavia, quando parliamo di comunità tanto invisibilizzate ed emarginate come quella T, è assolutamente necessario compiere lo step successivo e portare quelle rivendicazioni al di fuori della nostra cerchia “fidata”. In quanto alleat*, attivist*, “avvocat*” dei diritti delle persone trans*, dovremmo sfruttare il nostro privilegio e il nostro spazio di visibilità anche in terreni ostili, per favorire riflessione, discussione e consapevolezza riguardo le problematiche che affliggono la comunità trans*. Quando assisti ad un discorso transfobico, a episodi di discriminazione, violenza verbale o fisica e bullismo o a conversazioni problematiche, prendi una posizione: fai sentire la tua voce! Non tanto per chi è dalla parte dell’oppressore, ma soprattutto per chi ne è vittima. Sembra una banalità, ma il messaggio “non sei solo/a” in questa battaglia, “io ti vedo e supporto” è forse il più importante e fondamentale di tutti. Questo vale sia per la vita “reale” che per il web, ovviamente.
Supporta gli spazi di visibilità trans* online ed offline, partecipa attivamente a momenti di sensibilizzazione e manifestazione, sii pronto/a a fare un passo indietro
Dare voce e visibilità a chi non ne ha è fondamentale. E questo ovunque: negli spazi sociali che frequentiamo, sul lavoro, all’università e a scuola, nelle nostre comitive, in piazza, sui media, sui social. A seconda del vostro ruolo nella società e delle attività che portate avanti, ad esempio, potete trovare il modo di dare rappresentazione e agency alle persone transgender. Questo è importante: non basta “parlare di” o “parlare per”, è necessario sapere quando fare un passo indietro e porci in ascolto noi stess*. È dall’avere visibilità che lo stigma inizia ad incrinarsi, i pregiudizi vengono messi in discussione sempre più diffusamente e la persona discriminata può avere occasione di rappresentarsi, parlare e non “essere parlata”, portare nel mondo la propria verità e le proprie rivendicazioni. Esserci – essere presenti nella società in quanto corpi, voci, identità – è il primo, grande atto rivoluzionario. Promuoviamo questo nei luoghi che frequentiamo, cercando anche di supportare la presenza e la produzione culturale e politica delle persone trans*. E facciamolo pubblicamente.
Ecco qui i nostri primi cinque punti per un concreto cambiamento, nella convinzione profonda che il primo e più grande è quello che proviene da dentro e che nasce dalla chiara consapevolezza di chi siamo, che posto occupiamo e, soprattutto, che mondo vorremmo costruire per il domani.
Immagine in evidenza: Marcia per i diritti transgender. Lo striscione recita: “Quante persone transgender devono essere uccise affinché tu ti senta coinvolto?”. Credits: HECTOR MATA/AFP/Getty Images.
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