– di Eleonora Lugli e Annalisa Bosco
Novembre, Quito si sveglia soleggiata all’ombra dei vulcani e delle bianche nuvole andine, con il suo traffico abituale di macchine e venditori ambulanti lungo le strade; gli autobus scolastici pieni e con i vetri appannati; quelle solite canzoni famose in radio e fuori dai negozietti di quartiere.
Un mese fa al posto dei fumi di scarico dei mezzi di trasporto e dei barbecue abusivi sparsi in giro tra parchi e garage, c’erano quelli dei lacrimogeni lanciati a tutto spiano sulla folla in rivolta. Con la stessa rapidità con cui tutto era iniziato, allo stesso modo sembrerebbe essersi concluso.
Sono ormai passate più di 3 settimane da quando il presidente dell’Ecuador Lenin Moreno ha abrogato il decreto 883 ed è sceso a patti con la CONAIE, la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador, che aveva guidato le proteste contro l’ormai famoso Paquetazo – una serie di misure economiche di austerity accordate con il Fondo monetario internazionale (Fmi) in cambio di un credito di 4,2 miliardi, che prevedeva, tra le altre cose, l’abolizione dei decennali sussidi statali sui combustibili e sui trasporti. Inutile dire che tale manovra avrebbe penalizzato direttamente la fascia più povera del paese, ossia quella comprendente le popolazioni indigene e contadine costrette ogni giorno a far amplio uso di mezzi e carburanti per i propri spostamenti terrestri e fluviali.
Nel mezzo delle rivolte popolari che hanno bloccato Quito – e più in generale tutto il paese – per 12 giorni, con migliaia di persone che sono arrivate anche a piedi da ogni provincia puntando alle principali istituzioni statali, la sensazione era quella di stare in una gabbia al di fuori della quale si percepiva prepotentemente il peso della guerriglia, l’odore dei copertoni bruciati e un grigiore strano carico di tensione. Il popolo, vincitore di questa battaglia – come qualcuno ha sostenuto – era lì in prima fila a reclamare i propri diritti contro un governo corrotto e, praticamente, sordo di fronte alla voce dei più vulnerabili.
Dopo quasi due settimane sull’orlo di una guerra civile in cui di Ecuador, dentro e al di fuori del Paese, si era parlato poco o niente, il 14 ottobre, all’indomani dell’accordo con il Presidente, i giornali si sono riempiti di titoli che gridavano alla «storica vittoria indigena», e sicuramente non possiamo dire che non lo sia stata affatto. La forza con cui la comunità indigena e il popolo hanno portato avanti queste proteste per due settimane – nonostante la violenza con cui il governo ha immediatamente risposto – è solo da ammirare, ed è già di per sé, come ha detto una delle mie persone preferite su questo pianeta «un esempio di democrazia attiva come pochi se ne vedono dalle nostre parti».
Detto questo però, la cosa che dovrebbe farci riflettere è che la vera sfida è appena iniziata, ed è proprio in questo momento che non dovremmo abbassare la guardia, ma vigilare invece sul rispetto della volontà popolare e sul nuovo decreto annunciato dal governo. Come verranno ascoltate le necessità di tutti? In che modo accettate le proposte della comunità indigena e dei cittadini? Quali manovre economiche alternative saranno approvate per far fronte alle spese? Per dirla in maniera semplicistica, il popolo ha vinto davvero o si è trattato del solito contentino?
Lo stesso movimento indigeno, al termine del dialogo di domenica 13 ottobre, aveva chiesto di mantenere alta l’attenzione, pur interrompendo le proteste, ma questa richiesta sembra essere caduta completamente nel vuoto. Le ultime avvisaglie di tutto ciò che è successo si sono viste lunedì 14 in mattinata, con strade ancora bloccate, fuochi e alberi sradicati un po’ ovunque, ma già lunedì pomeriggio le strade erano tornate alla loro normalità e le persone alle proprie attività.
Da quel momento, nessuna diretta streaming del lavoro delle commissioni è stata mandata in onda e delle negoziazioni sul nuovo decreto e le manovre alternative del governo nessuno ha detto niente. Che ne è degli oltre mille detenuti arrestati durante le manifestazioni per i quali si chiedeva la libertà immediata? Che ne è delle richieste di giustizia per i dieci manifestanti che hanno perso la vita nelle proteste?
«Continueremo le mobilitazioni. Chiamiamo il popolo ecuadoriano, la campagna e la città, gli indigeni, la società civile. Il popolo ecuadoriano non è uno scherzo. Non può essere messo a tacere perché qui, per ora, niente è stato risolto». Con queste parole, il leader del Frente Unitario de Trabajadores (FUT) aveva indetto uno sciopero nazionale per mercoledì 30 ottobre, per manifestare contro la riforma del lavoro che il governo starebbe elaborando. Lo sciopero è stato poi annullato, ma le parole con cui lo stesso era stato annunciato ribadivano l’esistenza di un chiaro malcontento latente.
In compenso, il giorno successivo, ossia lo scorso 31 ottobre, la CONAIE ha presentato una proposta alternativa al vigente modello economico e sociale. La stesura del documento ha seguito le linee gettate al tavolo delle Nazioni Unite dell’Ecuador con la fine delle proteste. Nel testo si parla di una maggiore integrazione del popolo nei processi decisionali – intendendo come popolo quello ecuadoriano, multiculturale e multilingue, come la stessa costituzione lo definisce. Il rispetto della diversità del paese è il rispetto in senso più amplio dei diritti umani e costituzionali, un patto tra i vertici e la base della piramide sociale. Un patto che viene stipulato all’interno e che dovrebbe arginare l’influsso dei poteri esterni, artefici di un processo di distruzione dell’ambiente e delle vite in corso ormai da troppo tempo. Le estrazioni petrolifere, quelle miniere, la deforestazione, l’inquinamento di falde e suoli, tutte queste attività – avvenute ovviamente previo consenso del governo e accordo con le grandi imprese multinazionali – hanno scavato un solco profondo nella storia del Paese gettando in miseria la popolazione di una delle aree geografiche più ricche di risorse e biodiversità.
La democrazia avrà pur vinto ma, in un certo senso, le limitazioni all’esercizio della stessa stanno rivelando tutto il loro peso all’interno dell’area geopolitica latinoamericana. Di fatto, concluso il fermento ecuadoriano è stata la volta di Cile, Haiti, Bolivia, per citarne alcuni. Il cielo latinoamericano si è illuminato sopra le fiamme e gli scontri violenti avvenuti nelle ultime settimane di questo “autunno caldo”. Così in Argentina e Uruguay le ultime elezioni hanno allarmato creditori e analisti di mercato; l’instabilità del Perù sembrerebbe trovarsi in una fase di stagnazione; in Colombia non sono mancati nuovi episodi di violenza mentre nel vicino Venezuela la crisi in atto da anni ormai viene vissuta come normalità, allontanando la possibilità di una sua risoluzione; l’Amazzonia brasiliana è al rogo; un intero continente che brucia. Tuttavia, la fiamma della resistenza è viva e proprio la consapevolezza di ciò mette a tacere i media locali – sarebbe forse troppo rischioso far luce sulla compattezza del popolo in rivolta che come la storia ci insegna unido jamás será vencido.
A Quito, ad oggi, nulla si sa rispetto alle negoziazioni, attuali e future, tra governo e controparte indigena e sociale. I riflettori sono puntati sul caos generale che ha colpito l’intero continente mettendo sotto al tappeto la polvere che resta dei muri caduti nel centro storico, patrimonio culturale dell’Unesco, della capitale ecuadoriana. Non ci resta che attendere e, magari, nel frattempo, cercare di sensibilizzare il resto del mondo di fronte al momento di crisi dei diritti umani e del neo-liberalismo. Io, noi, crediamo che ci sia ancora qualche barlume di speranza.
Foto in evidenza: Domenica 13 ottobre, Av. Ladrón de Guevara, Quito.