A volte sento di avere una data di scadenza. Come quei vasetti di yogurt che spesso compro e dimentico in un angolo remoto del frigorifero e quando me ne accorgo è troppo tardi, sono ormai acidi, guasti, appartengono alla spazzatura. Ecco, spesso ho questo pensiero, quest’immagine davanti a me: mi vedo lentamente consumarmi, degradarmi in qualcosa di non recuperabile, non più utilizzabile. In una parola: inutile. È un’immagine piuttosto fastidiosa da evocare nel prossimo, me ne rendo conto. Nessuno vorrebbe pensarsi come un prodotto in avaria in un mondo in cui il mantra è rincorrere un ideale di perfezione ed efficienza, massimizzazione e ottimizzazione del proprio potenziale psichico e fisico in funzione di qualcosa o qualcuno. Io a volte mi inceppo, mi incaglio in oceani di silenzio, basta un attimo e la mente mi resta intrappolata tra i rami e resta lì appesa, ad oscillare senza scopo, sempre più lentamente, fino a fermarsi del tutto. La sento liquefarsi e scivolarmi addosso, come un sudore che non controlli. Vedo il mio volto acquisire fattezze che non m’appartengono, riconosco su di esso i segni del degrado, gli sbuffi di muffa che iniziano ad accumularsi agli angoli. Li vedo espandersi, moltiplicarsi, cespugli di marcio pronti ad ingoiarmi.
Eccolo allora quel pensiero lì: ci siamo, è finita, ho raggiunto il punto di non ritorno. La data di scadenza. La vedo comparire sul fianco, sotto la lingua, nell’ombelico, sui polpastrelli. È andata. E mi appresto a gettarmi via prima che lo facciano gli altri, prima che il mondo attorno a me si accorga del posto che occupo “illegalmente”. Spesso velocizzo il processo con le mie stesse mani, aiutando lo sfacelo, aiutandomi a consumarmi. Prima questa era la norma, una prassi di distruzione e annichilimento che, e questo forse non tutti hanno il coraggio di ammetterlo, regala un certo piacere, una certa convinzione di avere, tutto sommato, un qualche potere. È un’illusione, per altro controproducente, perché nutre il desiderio di disfatta. Da qui, la data di scadenza si allarga a tutte le sfere della vita. Tutto viene fagocitato da quella muffa, tutto acquisisce un aspetto vecchio e ripiegato, mutando in altro, qualcosa di irriconoscibile. L’amore ne è infettato, il lavoro, lo studio, la vita sociale. Le pareti gocciolano, trasudano marcio. L’unico pensiero che riesce ad emergere e respirare tra liquami tossici è: non c’è speranza.
Poi però succede sempre qualcosa. Da qualche fondo nascosto del mio io trovo un aggancio, uno spiraglio al quale appoggiarmi per assorbire aria pulita. Ci vuole tempo, pazienza e coraggio, ma piano piano torno a osservare il mio corpo e riconoscerlo: vedo il marcio ritirarsi e scomparire, chissà come e dove, riassorbito forse da quella parte di me che odio e che a volte prende il sopravvento, quella che fino ad ora ho chiamato “mostro” o “cosa” ma che mi somiglia terribilmente quando la guardo più attentamente. Sento le mie cellule rigenerarsi, i nervi rinvigorirsi, i neuroni tornare ordinatamente al proprio posto. Mi sembra come tornare a vedere dopo secoli di buio, come se gli occhi si fossero scrollati di dosso ere di oscurità. Sono ancora qui, mi dico, un po’ incredula.
Questo è il mio vero potere: saper invertire i processi, viaggiare nel tempo avanti e indietro, sfidare le leggi fisiche. Saper afferrare me stessa e tirarmi fuori dal mio stesso marcio, dal mio stesso odio. Sono allo stesso tempo l’eroina e la villain, in questa storia. Distruggo universi e li creo. Il finale non è un bacio romantico con chi mi ha salvata, né un urlo di rivalsa e vittoria, ma un tacito so-stare tra me e me, un abbracciarmi, un aggrapparmi ancora una volta a tutte le parti che mi fanno ciò che sono e che, paradossalmente, contribuiscono in qualche modo alla riuscita di questa storia.
Mi piace pensarmi allora come un supereroe capace di rigenerarsi ogni volta che la fine sembra vicina.
O come uno yogurt un po’ speciale.
Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.
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