Di Giuseppe Santaguida
Volontario di Operazione Colomba
La strada da Temuco a Concepción è un fiume d’asfalto che costeggia boschi di pino e eucalipto. Un tratto di panamericana che si snoda attraverso piantagioni di alberi destinati alla produzione di legno e cellulosa, perlopiù monocolture gestite da grandi imprese forestali. Molto spesso, il susseguirsi continuo e monotono degli alberi viene bruscamente interrotto da qualche ettaro di terra brulla, un deserto marrone completamente spoglio. Sullo sfondo si possono notare le cataste di tronchi pronti per essere trasportati.
L’impressione è quella di osservare un campo su cui si è appena svolta una battaglia: il terreno appare smosso da solchi e buche frastagliate e tutto attorno carcasse di rami giacciono a terra senza vita. Chiudendo gli occhi si può immaginare il rumore inteso dei macchinari, le urla dei lavoratori e il legno che cade al suolo, scuotendo la terra fin dalle fondamenta. Tanto rumore e poi il nulla, chilometri di terreno svuotato della vita che lo ricopriva e tetro silenzio di morte. Pochi metri più in là, appare un altro campo, dove timidi si sporgono i nuovi alberi appena piantati. Avranno il tempo di crescere qualche metro prima di essere sacrificati anche loro, vittime inermi di una guerra destinata a non finire. Questo è il lascito dell’industria forestale sulla morfologia del territorio, un’eredità fatta di estrattivismo, silenzio e macerie.
Ma in Cile c’è un altro silenzio che aleggia nell’aria, si aggira furtivo aldilà del fiume Bío Bío e si espande verso nord, afferrando il paese dalla costa alla Cordigliera, fino a inebriare le strade della capitale e i palazzi del potere. Un silenzio fatto di indifferenza e freddo calcolo politico. È la risposta dello Stato ai detenuti mapuche in sciopero della fame nelle carceri di Concepción e Temuco.
Oltre alla revisione del processo di alcuni condannati, che secondo chi protesta sono stati giudicati colpevoli in assenza di prove chiare e certe, i detenuti cercano di ottenere migliori condizioni carcerarie e il diritto di poter continuare a vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura mapuche all’interno del carcere: nell’alimentazione, nella spiritualità e nel contatto con la terra. A tal fine, richiedono la ricostituzione di una sezione specifica destinata ai prigionieri mapuche nel carcere di Concepción, dove possano essere rispettate le prescrizioni della Convenzione ILO 169 sui popoli indigeni, ratificata dal Cile nel 2008, o in alternativa, il trasferimento nel carcere di Temuco dove tuttora esiste un modulo dedicato ai detenuti mapuche.
Queste sono le principali richieste alla base della huelga de hambre (sciopero della fame). Una tipologia di azione estrema, ma nonviolenta, che i detenuti mapuche hanno iniziato a intraprendere da diversi anni e ha già consentito loro di ottenere dei diritti che molto spesso media e gendarmeria (corpo di polizia penitenziaria) ritengono essere privilegi. Attualmente, a Concepción sono 11 i detenuti in sciopero della fame, ai quali si sono aggiunti 5 detenuti nel carcere di Temuco. Per alcuni lo sciopero dura da quasi 80 giorni e, nonostante le loro condizioni psicofisiche siano ormai allo stremo, i detenuti sono fermamente decisi a continuare. Tuttavia, da La Moneda ancora nessuna risposta. Ad oggi, infatti, non sono trapelati comunicati o dichiarazioni ufficiali.
Se, da un lato, l’indirizzo politico generale sembra quello di non voler minimamente parlare della questione, dall’altro, sul terreno dello scontro, nelle estreme province della repubblica, la risposta della gendarmeria si è già fatta sentire. La direzione del carcere di Temuco ha infatti deciso di punire i 5 prigionieri mapuche entrati in sciopero della fame a sostegno dei compagni di Concepción. Le misure punitive riguardano soprattutto la negazione delle visite familiari e dell’ingresso nel carcere di prodotti e bevande tradizionali. Misure eccessive, denunciate da detenuti e familiari, tese a piegare il morale dei partecipanti e decisamente insensate per il carattere nonviolento della protesta.
Qualche giorno fa, Emilia Nuyando, deputata di origine Mapuche, ha provato a sollecitare Governo e Ministero di Giustizia affinché prendano in considerazione le richieste sollevate dai prigionieri in sciopero della fame nei diversi complessi penitenziari, prima che sia troppo tardi. La deputata sostiene che alcune di queste richieste possano essere esaudite. Tuttavia, anche questo appello non ha ancora ricevuto risposte. Del resto, da tempo la cortina del silenzio sembra aver preso d’assedio anche le aule del Parlamento, tra maggioranze conservatrici, speranze deluse e coabitazione.
Fanno rumore invece le catene di Esteban Henríquez, detenuto venticinquenne in sciopero della fame, trasportato due settimane fa dal carcere all’ospedale regionale di Concepción, a causa di un evidente peggioramento delle sue condizioni di salute. I medici riferiscono che il paziente peggiora di giorno in giorno e i familiari contestano le eccessive misure coercitive a cui è sottoposto. Per evitare che possa fuggire, i piedi di Esteban sono stati legati al letto con delle manette, questo nonostante le sue condizioni di salute gli impediscano di potersi muovere e sia tenuto costantemente sotto controllo da guardie armate dentro e fuori dalla stanza.