“Quando siamo partiti dall’Afghanistan, mamma mi ha affidato mia sorella di sei anni. Lei è morta nel naufragio, il suo corpo è ancora chiuso nella barca affondata. Non ho nemmeno un paio d’occhi su cui piangere”.
La voce di Ahkim si perde tra le raffiche del vento e il suono rotto delle onde sulla spiaggia di Steccato di Cutro.
Al termine di una marcia colorata e silenziosa, migliaia di persone accorse da tutta Italia si raccolgono sulla sabbia dorata ancora sporca dei resti dell’imbarcazione fracassata due settimane prima.
Davanti a un microfono di fortuna e pupille gonfie di pianto, chi è sopravvissuto alla strage racconta del proprio viaggio, delle proprie perdite, della speranza di non essere abbandonati, non ancora. È una cerimonia della compassione, del dolore, di una rabbia divenuta consapevolezza.
Tra gli ululati di un ponente invernale, il papà di un bambino ingurgitato dal mare lo scorso 26 febbraio canta un versetto del Corano che racconta del mondo nuovo che aspetta ogni anima al di là dell’orizzonte terreno.
Un pescatore del paesino calabro che aveva preso parte ai soccorsi nella notte del naufragio piange tra i famigliari, ripetendo con un filo di voce “volevo salvarne di più, lo giuro, scusate”.
Centinaia di fiori colorati seppelliti a riva come lapidi ballano al ritmo scostante della brezza in ricordo di chi riposa a pochi metri di distanza, tra i flutti di un mare agitato e scuro.
È un tempo religioso quello che accompagna ogni gesto, un rito collettivo di consacrazione del ricordo e di una pietà degna, antica, necessaria.
La manifestazione di sabato 11 marzo a Steccato di Cutro ha segnato un passaggio dovuto per tutte quelle persone che hanno visto nelle decine di salme inghiottite dal mar Jonio il simbolo di una politica inumana, decisa a trasformare l’anima del Mediterraneo in un cimitero senza passaporto.
Una mescolanza di volti, associazioni, realtà lontane ed eppure complementari, si è stretta in un abbraccio profondo attorno ai famigliari delle vittime, a chi è stato abbandonato dai rappresentanti di un potere incancrenito, e ha fatto di questo abbraccio la bussola di una visione politica che non può più essere confinata nell’antro fumoso dell’utopia.
A Cutro non ci sono stati solo sopravvissuti e pescatori, capitani e attiviste, organizzazioni non governative e movimenti operai, sindacati e associazioni cattoliche. A Cutro c’è stata un’unica grande coscienza forgiata nella vergogna, nello sdegno, e nella consapevolezza che calpestare quella che rappresenta la terra promessa per migliaia di migranti è un privilegio che pesa su secoli di una storia ingiusta.
“Quello che ci porta qui da ogni dove è il sentimento di fratellanza e sorellanza, siamo qui per mettere i nostri corpi tra leggi inumane e la legge del mare che ci dice che prima accogliamo e poi discutiamo”.
Nelle parole di don Matteo della ong Mediterranea c’è il senso più intimo della marcia: ricordarci e ricordare che non esistono esigenze politiche, regole e confini che possono limitare l’esigenza di vivere l’umanità eterna che accende i nostri corpi.
Umanizzare il dibattito pubblico che ruota attorno alla migrazione è il primo passo per tornare a fare del mare un ponte di connessione e non un segno del privilegio che calpesta la coscienza. E poi prendere azioni, mobilitarsi per rendere l’accoglienza un processo istituzionalmente naturale.
Dal terribile naufragio del 26 febbraio ad oggi sono morte più di trenta persone tentando di raggiungere le coste italiane. Ancora. Nuove salme da avvicinare alle bare allineate al PalaMilone di Crotone, a segnare un ritmo ciclico che non smette di scandire il suono della nostra vergogna.
Come denunciato da Mediterranea, nonostante la mobilitazione pubblica, nonostante lo sconcerto collettivo, nulla è cambiato. Il mare continua ad essere luogo di sconfitta per la nostra umanità, simbolo di una civiltà fondata sulla strage sistemica come modello di garanzia dell’esigenza di sicurezza (di chi? Da cosa?).
In questo senso, la manifestazione di Cutro di due settimane fa è stato un punto di arrivo e partenza, uno spazio d’incontro che demarca il limite del sopportabile e indica la nuova rotta da seguire in ogni ambito, dai modelli d’inclusione nei piccoli comuni fino al dibattito europeo sul tema, dai sistemi di rilascio dei permessi di soggiorno alle regole d’ingaggio per i salvataggi in mare.
Ce lo chiede Akhim, Mohammad, Jafari, Nasir e le migliaia di persone che attraverso le loro parole hanno trovato un luogo in cui riposare e pretendere giustizia.
Ce lo chiede il tam-tam convulso di un mare capace di ricordarci da dove veniamo.
Fare nostro questo monito è l’unica legge scritta tra le impronte fresche della spiaggia crotonese.
L’unico orizzonte possibile per salvare l’umanità che ci rimane. Almeno lei.