Qualche settimana fa stavo provando senza successo a far entrare la montagna di carte accumulate a casaccio sui ripiani dell’armadio all’interno di raccoglitori di plastica, un tentativo disperato reso necessario dalla partenza imminente.
Tra gli strati archeologici di mesi di lavoro e ricordi centroamericani trovo un documento che avrà avuto cinque o sei anni.
L’impostazione raffinata e l’intestazione piena di ghirigori tradiscono la provenienza lontana anni luce dalla vivacità raffazzonata della campagna guatemalteca.
È una bozza di contratto realizzata quando ero un aitante avvocato praticante in uno studio legale internazionale del centro di Milano. Non so bene come sia atterrata tra le mensole in compensato grezzo della camera e mi fermo a scorrerla con un sorriso curioso sulle labbra.
Per gli istanti della lettura mi ritrovo a navigare indietro nel tempo, nel tintinnio del marmo tra i corridoi dell’ufficio e le colazioni di lavoro davanti ai cappuccini schiumanti, l’orologio sempre al polso e la cravatta ben annodata attorno al collo.
A questo punto il sorriso si storce un po’ e per un istante, piccolo, minuscolo, mi coglie un alone di nostalgia. Come una carezza leggera, quel tempo di comodità e vita facile mi soffia piano sulla pelle lasciandomi dondolare in balia di ricordi infinitamente più soffici della quotidianità irsuta in cui sono immerso da qualche anno a questa parte.
Resto così, sospeso, per qualche attimo, fino a quando le urla del gruppetto di bimbi che ha preso la nostra casa come alternativa al parco giochi si accendono in salotto e li sento avventarsi con la nonchalance di un branco di gnu in amore sul ripiano dei pennelli e colori a tempera.
Esco dalla stanza e li trovo lì, vivaci, disordinati e seminudi, riempire di forme astratte i cartelloni perennemente aperti nell’angolo dei giochi. Disegnano mari che non hanno mai visto, aerei pieni di fiori solo immaginati attraverso i racconti dei turisti di passaggio, mostri volanti con code di sirena e occhi di tortillas.
Spremono i colori come se dentro ci fosse il segreto della loro fantasia, a tratti rapiti dalla paura che fermandosi potrebbero perdere anche lei.
Li osservo e loro sono così concentrati che nemmeno si accorgono del mio sguardo. Li osservo e nel tempo di quella vista sento svanire via il velo di nostalgia che aveva appannato per un istante le pupille, lasciando al suo posto una leggera vergogna.
Li osservo e avverto che in quelle mani da bambini piene di fare, sogni e terra bagnata, c’è il senso sgangherato di una scelta presa tempo fa e che mi accompagna ancora. C’è una lezione quotidiana che non smette d’insegnare alle mie pupille il midollo delle cose che contano.
In questi ultimi nove mesi di vita guatemalteca ho imparato la complessità della vita semplice leggendo negli sguardi delle contadine la fatica placida di una esistenza fatta di sveglie alle cinque e attese cicliche.
Ho imparato il coraggio di lottare anche se si è consapevoli di perdere ascoltando i racconti dei leader comunitari che combattono per difendere la terra dei propri papà dalle mire predatorie di multinazionali giganti.
Ho imparato la fantasia che nasce dal nulla osservando i giochi di paglia e fango dei bambini nei villaggi.
Ho imparato il valore di tramandare la propria storia per farne pane quotidiano al servizio di chi verrà domani facendo miei i racconti di guerriglieri anziani che hanno lasciato andare metà della propria esistenza nella terra umida della foresta per rincorrere un ideale di giustizia.
Ho imparato il senso quotidiano della dignità osservando le palme arse dai calli di donne con otto figli e una capannina di foglie come tetto che di fronte alla proposta di un aiuto economico rispondono di non preoccuparsi, che sicuramente la vicina ne ha più bisogno.
Ho imparato cosa sia la vera ospitalità trovando sulle due travi di legno utilizzate come tavolo da pranzo l’unico pollo spelacchiato della casa appena bollito come gesto di benvenuto, nonostante le dispense della cucina siano vuote di cibo e piene di ragnatele.
Ho imparato l’essenza sacra della relazione con la natura annusando il profumo di foresta dei giardini di casa lasciati liberi in un verde selvaggio inzuppato di umido.
Ho imparato a ringraziare trovandomi di fronte agli occhi bagnati di pianto di una madre che aveva appena scoperto che il figlio più giovane partito mesi prima era arrivato in un lontano paese del nord come migrante clandestino, per lavorare e sorreggere le sue spalle.
Ho imparato tutto questo e molto più. Le storie, le parole, gli incontri si sono fatti brandelli di un collage vivo che ha riempito di senso gli ultimi nove mesi e rinfocolato di valore una scelta presa anni fa.
Da qualche giorno sono di nuovo a casa, dall’altro lato dell’oceano, in una comodità soffice in cui sentirmi coccolato. Sono di nuovo a casa e questo tempo di vita semplice e profonda ha preso le forme di un ricordo stampato sulle nervature più autentiche della memoria.
Anche qui, a un mondo di distanza, le mani dense di sogno delle donne e degli uomini del Petèn non smettono di ricordarmi l’importanza di essere parte di tutto questo, di esserne linfa, e di continuare a vivere l’antica complessità di chi cerca di trarre fuori dal poco il senso enorme delle cose.
Ciao casa, resterai una voce umida di senso impressa nelle corde più profonde.
Con buona pace dei ricordi in abito e cravatta.