Le reazioni che ho descritto nello scorso articolo a proposito della timidezza si trovano tutte, e in maniera più accentuata, quando mi ritrovo all’interno di un gruppo.
Una piccola definizione di cosa intendo per gruppo: un insieme di persone di numero non definito, ma in genere più di tre, che si ritrovano in un momento particolare, unite da un motivo più o meno forte.
Questa strana entità gruppo sembra avere diversi poteri, primo dei quali è quello di moltiplicare i propri membri solo per il fatto di includerli nella propria struttura. Ovvero: quando le persone si ritrovano in un gruppo è come se il loro numero crescesse esponenzialmente, e la loro quantità effettiva non vale. Diventano molte di più, come se il gruppo agisse da moltiplicatore.
Per tanto tempo ho combattuto con forza contro la mia incapacità a stare dentro ai gruppi. Non capivo perché non potessi riuscirci e mi intestardivo a volercela fare a tutti i costi. Mi sembrava che, al di fuori di un gruppo, non esistesse nessuno. E questo è il secondo potere del gruppo: si nota di più delle persone singole, perché è più numeroso (e, agendo da moltiplicatore, lo è ancora di più). E in questo modo sembra dirti che, se non ti trovi al suo interno, non ti trovi e basta, non esisti.
Quando ero piccola passavo gran parte delle mie vacanze al mare, e per vari anni di seguito, mentre ero al liceo, sono uscita quasi ogni sera con una mia amica e tutto il suo gruppo di amici della spiaggia. Mi sono annoiata sempre.
Ma continuavo, imperterrita, convinta che, a forza di insistere, il segreto della vita nei gruppi mi sarebbe stato rivelato. Allo stesso tempo, però, sentivo che sopra di me c’era un’enorme etichetta che diceva: “Mi sento a disagio a parlare con voi”. E per quanto cercassi di far finta di niente, l’etichetta era sempre lì e la vedevano tutti.
Qualche rara volta, però, l’etichetta scompariva per qualche istante. In quei rari momenti, brevissimi e meravigliosi, mi sentivo una persona all’interno del gruppo. Lo notavo da piccoli dettagli, da minuscoli momenti in cui qualcuno si rivolgeva a me. Non si rivolgeva a me in quanto persona specifica, visto che non avevano idea di chi fossi, ma solo in quanto persona che faceva parte del gruppo. Lungi dal trovarlo brutto, a me pareva meraviglioso.
Questi momenti, inutile dirlo, duravano pochissimo.
Ma io continuavo la mia ricerca sui gruppi, volevo riuscire a capirli. Gli anni del liceo sono stati caratterizzati da un insieme infinito di gruppi e gruppetti che si univano e si staccavano. E io li guardavo da fuori.
Anche alla scuola di teatro, in cui andavo il pomeriggio, le persone formavano un gruppo. Ma lì, essendo di vari anni più piccola di tutti, per un po’ avevo trovato il mio modo di inserirmi: ero diventata una piccola mascotte che veniva interpellata con gentilezza. In particolare, c’era uno dei ragazzi più grandi che mi trattava come una sorellina minore, mi chiedeva come andava la scuola e mi prestava dei film.
Fino a quando non ho commesso il terribile errore di parlare della scuola di teatro alla mia amica Carolina (la stessa che mi ha rovinato il finale di Anna Karenina). Lei si è iscritta e, dopo meno di un mese, si è inserita perfettamente all’interno di tutti i gruppi e i sottogruppi della scuola di teatro, a me preclusi. E non come mascotte, ma come una persona vera e propria. E io sono diventata invisibile.
Ne ho avuto conferma un giorno, mentre Carolina e io tornavamo a casa. Ci aveva raggiunte il ragazzo che, fino a qualche mese prima, mi aveva prestato tutti quei film da vedere. Si era rivolto solo a Carolina e le aveva chiesto: “Domani facciamo una partita di calcetto, vieni?” e poi era andato via. A me non era stata rivolta alcuna parola e, per un istante, avevo pensato che forse ero diventata invisibile davvero. Era come se non esistessi.
Avevo pianto per giorni. Per la mia invisibilità, per il ragazzo che non mi prestava più i film, per la mia funesta idea di parlare a Carolina del corso di teatro. Ma, soprattutto, per l’esistenza dei gruppi.
Ho pianto ancora tante altre volte per i gruppi. Poi, a un certo punto, non ho pianto più.
Sono accadute due cose.
La prima è che ho elaborato una strategia: ho imparato come stare in disparte nei gruppi. È necessario non farlo in modo eccessivo, perché si potrebbe attirare ancora di più l’attenzione. Bisogna, invece, stare in disparte senza farsi notare troppo, facendo finta di non avere alcun problema con il gruppo. Bisogna stare in disparte senza stare davvero in disparte. Dopo anni di esperienza, a volte ci riesco.
E poi, seconda cosa, la più importante: ho capito che odio i gruppi e che questa cosa non potrà mai cambiare.
È stato un grande sollievo.
A poco a poco ho scoperto che esistono molte persone che odiano i gruppi. Solo che prima non le notavo, perché i gruppi le nascondevano.
Adesso, qualche volta, i gruppi appaiono addirittura composti dal numero effettivo di persone fisiche che lo formano. Il gruppo perde il suo potere di moltiplicatore.