Sveglia, fornelli e acqua bollente. Lascio cadere un cucchiaio bello gonfio di caffè nella tazza e in breve si fa scura. Il sapore è lungo e diluito, scivola amaro sul palato lasciando una leggera raschiatura sulla lingua. A pochi istanti dal primo sorso sale alle narici un soffio vagamente industriale, di quelli che hanno alcune bottiglie in vetro di bevande gassate.
Il caffè Incasa è la bevanda più bevuta dai guatemaltechi con la prima colazione, una miscela economica di scarti di chicchi estremamente lavorati e polverizzati industrialmente. Non è buona e sicuramente non è salutare. Basta un sorso per accorgersene.
La cosa buffa (e triste) è che il Guatemala è il decimo esportatore al mondo di caffè, un caffè di prima qualità che arricchisce le torrefazioni di mezza Europa. Alcuni degli espressi più gustosi (e cari) delle grandi marche di casa nostra utilizzano solo chicchi di pergamino guatemalteco.
Come succede allora che qui l’unico caffè acquistabile è una miscela chimica dal sapore imbottigliato?
Le grandi multinazionale del caffè possiedono enormi quantitativi di terra in Guatemala, pagano i campesinos due spicci e spediscono la stragrande maggioranza del prodotto migliore in Europa. Al mercato locale restano gli scarti da mescolare con agenti chimici e un po’ di sana compassione.
Funziona così in qualsiasi ambito della produzione.
Chiquita nel paese è ancora titolare di più del 50% delle concessioni su terreni agricoli. Le produzioni fruttali migliori sono indirizzate ai mercati “del primo mondo”, lasciando al mercato locale scarto e pesticidi chimici.
Con buona pace dell’incidenza dei casi di cancro che aumenta vertiginosamente (solo nella comunità di cento famiglie dove vivo ne sono morti tre sotto i vent’anni negli ultimi dieci anni).
È lo stesso sistema che ho incontrato in Congo e in Bolivia prima.
Terre ricche di cobalto, coltan e litio dove un cellulare di bassissima qualità non costa meno del quadruplo del salario minimo mensile e la popolazione è costretta a vedere scappare via la parte migliore del proprio sudore sottopagato.
Si potrà dire: ok ma almeno chi lavora ci guadagna da questo sistema?
Purtroppo è l’esatto opposto.
Le grandi compagnie, giocando sulla miseria e l’ignoranza dei contadini, comprano per poco estensioni immense di suolo e qui fanno piantagioni, miniere e industrie. Privati della loro terra, spesso con l’inganno di contratti fuorilegge, i contadini non hanno alternative e sono costretti a lavorare per le stesse aziende a cui hanno venduto i propri piccoli possedimenti. Forti del monopolio lavorativo, senza concorrenza, le grandi aziende opprimono i lavoratori con salari da fame e orari da caporalato.
Il risultato è un enorme fatturato per le aziende internazionali, prodotti finiti di qualità a basso costo per i mercati del primo mondo e miseria nel cosiddetto terzo (che in realtà sarebbe il più ricco se non fosse per questo sistema).
Quanto succede con il caffè Incasa è lo specchio di un modello commerciale duplicato per decine di altri prodotti.
Choco Panda, ad esempio, è un intruglio di grassi trasformati e additivi chimici a basso costo che quotidianamente contribuisce a impennare i livelli di colesterolo delle famiglie dell’area rurale guatemalteca (ovvero l’80% del paese) in maniera allarmante.
Le bustine color giallo smagliante rappresentano la maniera in cui oggi in Guatemala la maggioranza della popolazione consuma il cacao; un risultato elaborato industrialmente dei chicchi di scarto della peggiore produzione.
Viene usato ovunque, come bevanda rinfrescante, snack per i bambini o aroma per i dolci, nonostante abbia una etichetta d’ingredienti che assomiglia a un esperimento di chimica di un ripetente al liceo.
Il Guatemala è la culla della cultura maya e sin dagli albori di questa civiltà il cacao è stato venerato come pianta sacra. Veniva utilizzato come medicina dell’anima, bevanda cerimoniale e rinfresco giornaliero da ogni classe della popolazione. Le sue proprietà anti-ossidanti e serotoniche sono state oggetto di venerazione e studio per millenni. Ancora oggi le comunità indigene più remote bruciano polvere di cacao appena raccolto nelle cerimonie propiziatorie.
Come per il caffè, la produzione di cacao in Guatemala è tra le migliori al mondo.
Un mix di tradizione, spiritualità ancestrale e fertilità del terreno continua a garantire una qualità eccezionale. I metodi di seccatura e raffinamento ereditati dalla tradizione precolombiana ne esaltano il sapore conferendo un inconfondibile sigillo di valore.
Allo stesso tempo, i campesinos che lo producono per l’esportazione ricevono compensi da fame mentre il grosso del fatturato si ferma nelle mani di poche famiglie di grossisti e aziende di export.
L’ingranaggio non si ferma perché non esistono alternative: la cultura ancestrale si sta perdendo, gli edulcoranti chimici stanno corrompendo i gusti dei più piccoli e non esiste una filiera di qualità per la trasformazione della materia prima nel paese. I primi due sono problemi che viviamo quotidianamente anche in Europa ma, mescolati al terzo, in Guatemala disegnano le fattezze di una condanna economica. L’esportazione a basso costo è l’unica opzione rimasta per i piccoli e medi produttori guatemaltechi.
E noi cosa possiamo fare in tutto ciò?
Possiamo fare tanto.
Prima di tutto comprare meno, quanto basta alla felicità (quella vera, piccola, fatta di momenti e non cose).
In secondo luogo comprare in maniera consapevole. Con AMKA abbiamo lanciato un progetto di accompagnamento rivolto a donne produttrici di caffè e cacao con l’obiettivo di garantire una filiera giusta ed etica in ogni passaggio. Se oggi comprate Caffè Speciali Certificati sapete che una parte dei chicchi delle miscele vengono da donne autonome, formate e ben pagate, che non sono costrette a svendersi alla mercé dell’intermediario di turno.
Infine, supportare tutte le organizzazioni come AMKA che tentano di cambiare un passo alla volta questo sistema ingiusto e barbaro, basato sullo sfruttamento sistemico. AMKA, e tante altre piccole associazioni no-profit come lei, fanno della relazione diretta con le comunità d’intervento un caposaldo dell’attività e riescono a creare leve di cambiamento partendo da un lavoro di relazione profondamente dal basso, lontano da logiche di produzione e macro-dinamiche di mercato.
Non è facile, serve tanta empatia per andare oltre alla comodità che ci fa sentire nel lato giusto del mondo, ma è da qui che passa la nostra capacità di essere davvero umani, anime semplici di una stessa terra.
Passa da un chicco di caffè o da un baccello di cacao.
E dal sogno che un giorno anche in Guatemala, a due passi dalle piantagioni gonfie di noccioli rossi a due labbra, si potrà fare colazione con un dolce aroma di casa nella bocca.
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Guglielmo Rapino ed Elena Merlo, rappresentanti nel paese centroamericano di AMKA, hanno da poco lanciato una campagna di raccolta fondi per la costruzione di un punto di vendita collettivo dedicato alle donne più giovani della comunità di Nuevo Horizonte. La Tienda mira a divenire un punto di riferimento per le contadine della zona e stimolare l’attivazione di canali di commercializzazione locale che buchino le maglie di una esportazione forzata a basso costo. È uno strumento necessario per evitare che Incasa e Choco Panda continuino ad essere gli unici modelli di prodotto commercializzati nel paese.
È possibile donare ora per la campagna “AMKA è Donna” su https://bit.ly/CostruiamoLaTienda