La Paz è una terra di voci discordanti, un luogo vivo dove opposti e contraddizioni sembrano darsi appuntamento per partorire un groviglio di colori e domande. Palazzi bianchi e barocchi abbracciano senz’affetto catapecchie sformate in pasta e mattoni rossi. I profumi e colori accesi dei mercati contadini tra le straducole riflettono le vetrine senz’anima dei negozi occidentali. Gli sguardi riarsi dalle rughe delle cholitas appena tornate dai campi si spengono nel ticchettio ritmato delle scarpe da gala dei funzionari di governo diretti verso casa.
Sembra che l’intera città sia figlia del clima nel quale è nata, un miscuglio indistinto di sole, pioggia e vento che ne impasta l’anima fin al midollo, creando un budello inestricabile e disordinato di strade, persone e mattoni, diversi, opposti. Un santuario vivo dove perdersi e riflettere, confusi dalle domande che ogni sguardo si porta dietro.
L’altro giorno, ad esempio, giocavo in un parchetto sgangherato con una trentina di bimbi vispi tra i cinque e dieci anni. Bambini del quartiere più povero di La Paz, El Alto, cresciuti in famiglie sbrindellate tra strade polverose e case in lamiera e che tutti i giorni trovano un piatto caldo e un aiuto scolare nel comedor gestito dell’equipe dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Oltre le urla eccitate delle bocche minuscole e sporche infervorate dalla palla, trovo al di là della strada, nella cornice vuota di una casa in costruzione, una coppia di manine all’opera mentre sferruzzano con cavi di ferro e tubi in lamiera. Bambini, forse fratello e sorella, i vestitini e gli occhi grandi ne dicono l’età d’asilo, al più elementari.
All’inizio penso che anche loro si stessero divertendo giocando con la fantasia, magari costruendo un aeroplano che li accompagni lontano su qualche isola deserta o una casetta per i loro giochi, segreti a noi adulti. Sorrido. Poi mi accorgo che alle mani hanno guanti sbiaditi da lavoro e sulla bocca una piega di fatica che nulla ha a che vedere con le smorfie divertite dei coetanei in strada. In un momento di pausa si affacciano dall’apertura grezza della finestra. Guardano giù verso di noi, in silenzio.
I loro sguardi inscuriti dal lavoro non hanno risentimento, sono bianchi e molli come quelli di chi vorrebbe essere in strada a giocare. Tento d’invitarli a unirsi a noi, accennano un sorriso flebile, alzano le manine imbarazzate e senza parole, con quegli stessi occhi bianchi e molli e il sorriso dolce indurito da sole e ferri, mi raccontano muti che non hanno tempo per essere bambini, che non tutti vivono vite uguali, che il diritto a crescere nell’innocenza placida della fantasia non si acquisisce alla nascita, che c’è una casa in mattoni crudi da costruire e lì torneranno. Mi salutano con un gesto della mano e si rimettono al lavoro.
Io resto lì, immobile e frastornato, a guardare la strada e vederci dentro la distanza di due realtà lontane e inavvicinabili. Da un lato, la terra soffice dell’immaginazione fatta di urla e rincorse sudate, dall’altro il suono sordo di un martello e il profumo acre della calce impastata. Al centro, in mezzo, le stesse gambine flosce e polverose, le stesse pupille lucide, larghe, gli stessi nasi minuscoli sporchi di saliva e terra grigia. Capisco che quei pochi metri di asfalto terroso e bitume segnano la distanza senza fine tra noi e loro, tra chi nasce di qua e chi di là, tra chi gioca spensierato a palla nel parco e chi incastra i tubi dell’impalcatura per avere un tetto alla sera.
Sono le stesse distanze che troviamo nella vita quotidiana, a casa nostra, ma qui, nella città degli opposti e delle contraddizioni risuonano amplificate dalla inaudita vicinanza. Basta una strada senza targa e ricordo per delimitare il confine chiaro di una storia mai vinta.
Abbasso lo sguardo, mi fermo ancora qualche secondo, tra le mani il peso di una consapevolezza tornata viva, poi la pallonata di uno dei niños mi riporta al mondo e riprendo a giocare. L’allegria senza pause dei bambini in campo mi contagia come una stretta d’acqua tiepida. Corro, grido, mi sporco di sorrisi.
Negli occhi la sagoma nitida di quei guanti minuscoli e sbiaditi, e dietro un pensiero infantile, ingenuo, il sogno che i marciapiedi di quella stradina senza nome si avvicinino fino a toccarsi.
[Foto di copertina: tra le strade di El Alto, di Emanuele Marafante]