Sbruffoncella fino in fondo. Che affronto, Carola. Questa volta l’hai fatta grossa davvero. Non ti bastava disobbedire agli ordini per mettere al sicuro una quarantina di persone salvate dai capricci del mare e dall’inferno libico verso cui qualcuno avrebbe voluto ricacciarle. Hai dovuto esagerare, mostrandoti scandalosamente agli occhi golosi di chi forse ha qualche attenzione di troppo per tette e capezzoli e qualcuna di meno, che so, per il rispetto del proprio codice deontologico. Una cosina a caso, eh.
L’attacco – l’ennesimo – di Libero Quotidiano a Carola Rackete può essere in fondo letto su un doppio binario: l’ossessione perenne di parte della cultura maschile per il corpo delle donne (corpo per natura indecoroso, da normare e controllare) e l’uso sistematico da parte di alcuni giornalisti (e politici) dell’umiliazione e della denigrazione sessista nei confronti di certe figure femminili, in questo caso quelle ricollegabili al mondo “della sinistra” e “delle Ong”, identificabili oggi come le “Nemiche” di Salvini e compagnia bella e dell’integrità stessa del popolo italiano. Da qui l’uso costante di un linguaggio ostile, confezionato ad arte per scatenare e fomentare i bulli e le bulle del Web.
Le minacce e gli insulti sui social subiti in questi mesi dalla Capitana della Sea Watch sono stati talmente tanti da generare un dibattito parallelo a quello sulla questione umanitaria relativa ai migranti. Non solo: chiunque abbia postato qualcosa in riferimento a Carola di certo avrà visto il proprio profilo Facebook o Instagram invaso a sua volta da commenti volgari, offese, auguri di stupro o morte. Ecco, a fronte di una situazione simile, in cui l’odio in rete cresce esponenzialmente per diventare uno degli aspetti più preoccupanti della rivoluzione digitale e del Web 2.0., occorre riflettere su quale sia il ruolo del giornalismo, come si situa nell’intersezione particolare tra hate speech, libertà d’espressione e dovere di una narrazione etica. Soprattutto, dovremmo iniziare a riflettere sull’impunità di certi giornali il cui ruolo sembra essere ormai, specie online, quello di megafoni passivi della politica o, peggio, dell’odio vero e proprio, contro singoli individui o particolari categorie e minoranze.
A Carola è stato detto di tutto. Curiosa è la tendenza a identificare l’appartenenza politica ed ideologica con un’estetica ben precisa. Non è sicuramente una pratica nuova, certo, ma sempre mi colpisce il modo con cui essa s’impone con maggior forza e violenza proprio sul corpo femminile. Ancora di più se questo corpo appartiene ad una “straniera” che, a suo modo, si fa portavoce di altri “stranieri” e per giunta si presenta in una posizione di comando nella vicenda, con un potere decisionale che la cultura italiana non è ancora del tutto abituata ad attribuire ad una donna. I violenti attacchi sessisti ci parlano proprio di questo: non si perdona a Carola di essere una donna, una Capitana e di aver sfidato un sistema ed un apparato di potere che nella percezione generale è ricollegato ancora ad una sfera di dominio maschile. Anche nel vestiario, anche nell’estetica: è quello il tradimento più grande, forse, l’affronto supremo.
Tornando alle tette di Carola, che dire. Preferisco nettamente una Capitana con i capezzoli liberi ad un Capitano che gioca a travestirsi ogni giorno, cambiando divisa in base all’occasione e che, per altro, di capezzoli non è mai stato “parco”. Un Capitano la cui unica libertà pare essere quella di odiare il prossimo e sproloquiare sui social aizzando i suoi followers contro chi non gli sta a genio. E che quando si denuda è acclamato, perché “vicino al popolo”, “casereccio”, “autentico”.
Per il resto, avverto Libero Quotidiano che di capezzoli al vento se passa dalle mie parti può trovarne quanti ne vuole. In fondo, per scandalizzarsi così tanto ne avranno visti davvero pochi, lì in redazione.