“In questa comunità nessuno ha nulla e tutti hanno tutto”.
Quando parla della sua comunità Rony ha l’abitudine di alzare lo sguardo sopra i tetti di lamiera verso il celeste chiaro del cielo equatoriale, come se ci leggesse dentro le lettere di quel discorso ancora aperto.
“Quando l’abbiamo fondata, con le novanta famiglie iniziali abbiamo scelto di dare a ognuna uno spazio per la casa, l’orto e tre ettari da coltivare. Questi spazi non sono della famiglia, sono della Cooperativa, quindi di tutti. La famiglia li utilizza per vivere bene ed essere felice. Tre ettari sono tanti, no?”.
A questa domanda abbassa lo sguardo, poi mi guarda un po’ sarcastico, come se percepisse di parlare fuori da un tempo che ha insegnato l’arte dell’accumulo come il riflesso naturale dell’istinto di sopravvivenza.
Rony è un tipo ossuto sulla cinquantina, magro e bassino, con il piglio del ragazzino da poco uscito da scuola. Quando parla muove freneticamente le mani come se così spiegasse meglio ogni concetto. Le ciglia tamburellano al ritmo concitato dei suoi discorsi. Sulla testa il cappello scuro lo accompagna come una bandiera irrinunciabile.
“Per diciotto anni ci ho dormito anche, con il cappello, sai?”
Erano gli anni del conflitto interno armato in Guatemala e Rony era comandante di uno dei fronti più attivi delle FAR, le Fuerzas Armadas Rebeldes, nuclei di guerriglia stabiliti tra le foreste del nord del paese e il confine con il Messico. In questo periodo molti dei campesinos del Petén, l’antica regione Maya, avevano scelto di unirsi alla resistenza contro il governo filo-americano per ottenere una redistribuzione equa della terra e il riscatto delle classi indigene, le più oppresse sin dai tempi del colonialismo spagnolo.
Dopo decenni di conflitto, nel 1996, i rappresentanti delle Forze Armate Ribelli e del governo firmarono un accordo di pace che avrebbe dovuto favorire la popolazione contadina. La storia dimostrerà il contrario.
Rony e la sua famiglia, insieme a un gruppo di compañeros e compañeras delle FAR, scelsero allora di non rinunciare all’ideale di vita per il quale avevano combattuto e si misero all’opera per dare vita alla Cooperativa di Nuevo Horizonte, un agglomerato di case, foresta e terra scura a mezz’ora di macchina da Flores, il capoluogo del Petén.
Più che un villaggio, o una collettività di famiglie, è un esperimento sociale fuori dagli schemi dello stile cittadino.
“Dopo la firma degli accordi di pace, al termine della guerra civile, abbiamo scelto di non lasciare morire tutto così, ma di continuare il nostro sogno rivoluzionario in un’altra maniera, senza le armi, con una comunità in cui vivere nell’uguaglianza”.
In queste ultime sillabe sembrano essere racchiuse le radici di un pensiero antico che in questo quadrato di casupole e strade in terra si è fatto carne quotidiana. U-gua-glian-za. I-gual-dad.
Un termine così abusato ed effimero che anche solo a scriverlo mi spaventa l’idea di apparire naif. Qui a Nuevo Horizonte, invece, questa parola racchiude la semplice essenza di un esperimento collettivo che va avanti da più di due decenni.
C’è uguaglianza nell’obbligo di qualsiasi persona, maggiore di età, di prendere parte al consiglio direttivo e di partecipare in prima linea alle scelte della comunità. C’è uguaglianza nella redistribuzione pubblica della terra e degli spazi. C’è uguaglianza nell’accesso a qualsiasi forma di diritto: dalla salute alla istruzione, dalla cultura all’arte. Il centro di salute, le scuole, il teatro e il piccolo museo locale sono gratuiti e finanziati con il fondo collettivo della cooperativa. C’è uguaglianza nelle geometrie delle abitazioni, perfettamente uguali nelle grandezze, eppure così diverse nei colori e nei vortici di vita che raccolgono.
Non c’è retorica nella constatazione che tra le strade di Nuevo Horizonte si respira il profumo intenso di una battaglia militare portata avanti fino all’estremo opposto, sino a farsi esercizio di convivenza pacifica; una battaglia tanto intensa e radicale da sfociare in una resistenza non-violenta all’accaparramento del consumo.
Il risultato di questo esperimento oggi è un paesino immerso nella foresta dove più di seicento persone convivono nel tamburellio di un ritmo profondamente naturale, alternando la pala nei campi al megafono nelle assemblee, nella ricerca costante di un equilibrio lento e contrario al vortice dei tempi.
“Mi piace Nuevo Horizonte, non c’è altro posto dove vorrei stare. Abbiamo attraversato momenti difficili e ancora oggi il mondo che viviamo ci costringe a vivere sotto il peso di oppressioni enormi. Un giorno molto probabilmente dovremo tornare a combattere contro queste oppressioni, oggi però la nostra battaglia è tutta in queste strade e in questa pace”.
Rony pronuncia queste ultime parole abbassando le mani sui fianchi, finalmente stese verso terra in un gesto di quiete, a disegnare il simbolo di un nuovo tempo e di un nuovo spazio, di raccolto, di attesa e di ricostruzione.
Quelle stesse mani portano i segni di una storia mai chiusa segnata a fuoco dall’idea che il noi sia più forte dell’io. Sono mani solcate dall’ideale, abituate al lavoro del campo e al rinculo del fucile.
Una testimonianza di Rony nel 2017 sull’importanza politica dell’indipendenza come comunità e cooperativa per l’organizzazione no-profit AMKA.