Quando la mamma ci ha raggiunto sotto al mango, il piccolo M. era avvolto nella stoffa colorata e larga della sua gonna.
La testa faceva capolino appena, mostrando una fronte lunga e liscia da neonato. I capelli scuri e radi, a ciuffetti distanti, sembravano invece presi da un altro viso, più anziano e vissuto di quello della fronte.
Insieme, mamma e bimbo, si siedono placidi sul tronco steso affianco, e ascoltano la nutrizionista sensibilizzare il gruppo di donne del villaggio sull’importanza di alternare carboidrati e proteine.
Sembrano banalità, ma in una terra così povera la necessità fa dimenticare anche le cose più semplici.
Arrivato il momento della pesa, la donna ci mostra il piccolo, ancora infagottato nel panno colorato.
Le guance gonfie si aprono in un sorriso lento e calmo, gli occhi scuri brillano di una profonda innocenza. Le braccia sottili sembrano non avere la forza di tirarsi su e prendono la forma del panno, molli come foglie.
La testa ballonzola a destra e sinistra, quasi il collo non fosse fatto per reggerla.
Basta uno sguardo per accorgersi che M. soffre di una grave disabilità fisica. La mamma ci racconta piano, scandendo le singole sillabe, quasi non volesse che le parole arrivassero lontano, che il bambino è malato sin dalla nascita e soffre spesso di crisi epilettiche.
Non sa dire “crisi epilettiche” e ci racconta cosa succede quando iniziano le convulsioni muovendo freneticamente le spalle.
Lo pesiamo e il dato della bilancia conferma uno stato di malnutrizione avanzato, già visibile a occhio nudo. Fa fatica a deglutire e la mamma, tra il lavoro dei campi e le faccende domestiche, non ha sempre il tempo di preparare la zuppa di arachidi.
Le piccole braccia magri e sottili ne sono la diretta conseguenza.
In un villaggio sperduto come quello di Mose, dove la vita è intrecciata a doppio filo con la scaramanzia, nascere con una disabilità così, segnata peraltro dal marchio dell’epilessia, vuol dire vivere una colpa indicibile. È già un miracolo che la donna abbia scelto di mostrarci suo figlio.
Finita la visita lo riavvolge nel panno, quasi a proteggerlo dallo sguardo delle altre mamme.
La invitiamo a seguirci nel centro di salute. Accetta, svelando sulle labbra un leggero sorriso di speranza che si intreccia stretto ai nostri, sopresi nel trovare una fiducia così inaspettata.
A Kanyaka, tra visite mediche e test di laboratorio scopriamo cosa abbia vissuto il piccolo M.
Non è nato con una disabilità. In verità, a pochi giorni dalla nascita ha sofferto di una forma grave di meningite.
Vista la distanza del villaggio dal nostro centro di salute, la mamma ha preferito dirigersi verso un dispensario dell’area. Qui non avevano antibiotici e il personale non qualificato del posto le ha prescritto una cura di emergenza che non ha minimamente curato la malattia.
Come conseguenza M. non è mai guarito.
La meningite ha scavato sul suo corpo i segni di una disabilità che lo accompagnerà per sempre. L’unico rimedio che possiamo cercare insieme sono delle sedute di fisioterapia per rinforzare i muscoli e cicli di cortisone per diminuire la frequenza delle convulsioni.
Prima di rimettersi in marcia per tornare al villaggio, la mamma stende il piccolo M. nel panno colorato e se lo abbraccia sulla schiena. Poi alza un leggero sguardo di supplica.
Dura un attimo, il tempo di scioglierlo in un sorriso di gratitudine. Dietro alle spalle M. sbatte appena le palpebre in un saluto fugace.
S’incamminano sul sentiero verso casa e lo vediamo fare su e giù al ritmo del passo della mamma. Il collo molle che si appoggia sulle spalle larghe.
Li salutiamo piano, e nel palmo aperto verso i loro corpi che si fanno piccoli troviamo il vuoto denso della consapevolezza di essere arrivati tardi, ancora una volta.
In un angolo di mondo così fragile basta una meningite non curata e un dispensario sfornito per condannare un bambino allo stigma perenne della malattia.
Sarebbe bastata una cura di antibiotici. Sarebbe bastato un medico.
Invece M. porterà sempre con sè il simbolo di una fragilità trasformata in essenza stessa delle cose.
Sapere di condividere un mondo in cui basta una meningite non curata per spezzare il ritmo naturale dell’infanzia è l’ennesima consapevolezza che domani riempirà di senso la giornata di lavoro.
Una consapevolezza che ha le forme degli occhi molli di M., densi e lucidi di una esigenza irrefrenabile di diritti basilari. Ovunque. Subito.
A domani M.
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