“Papa Jean, raccontaci una storia del villaggio in cui sei cresciuto, di quelle che raccontate quando è notte e non c’è più luce.”
“Che storie? Intendi la Bibbia?“
“No, intendo le storie della vostra tradizione. Sulle stelle, il mondo, la natura, non so, come tutto è nato ad esempio.”
“Ah no quelle non le conosciamo. Per noi c’è solo la Bibbia. Quelle storie lì sono stregoneria, portano maledizione.”
“Che intendi? Le storie tramandate dai vostri antenati sono stregoneria?”
“Esatto, non le raccontiamo. Non piacciono a Dio, per noi esiste la Bibbia. Tutto qui.”
Alle ultime parole ho alzato gli occhi verso l’alto a cercare quelle stelle che avevano perso il contatto con chi era abituato a custodirle nelle pupille ogni notte. Le ho avvertite per un attimo lontane, sfuggite allo sguardo di secoli di ammirazione.
Papa Jean non è un giovane bigotto figlio della vita rurale. Papa Jean è l’autista della nostra associazione, un signore di cinquant’anni che parla fluentemente francese e da venti vive di scambi con la cultura italiana.
Ci ha risposto così l’altra sera, quando alla fine di un tramonto arancio, guardando il cielo illuminato di stelle, gli chiedevamo di condividere un frammento della tradizione popolare, un pezzo dell’anima della cultura congolese e del suo vivere irrimediabilmente a contatto con quanto intorno.
Dalle sue parole abbiamo ricevuto la conferma di una sensazione che covavamo da tempo, il simbolo di una verità sedimentata nella quotidianità: la tradizione, la storia, la cultura, in questo paese è stata presa e cancellata per fare posto al riflesso di una memoria che è distante dieci mila chilometri.
La violenza più forte della colonizzazione europea è stata l’annientamento della tradizione millenaria di questi luoghi. Grazie a un lavoro certosino di mistificazione e manipolazione, quella che per secoli ha rappresentato l’ossatura della vita comunitaria è divenuta dannazione, male, “stregoneria”.
In Congo conoscevano il calcolo algebrico già 20.000 anni fa – vedasi la storia del bastone di Ishango. Oggi a malapena sanno distinguere una costellazione.
In Congo la medicina tradizionale ha rappresentato oggetto di studio per decenni da parte dei missionari europei (da leggere un qualsiasi diario europeo del tempo). Oggi una persona su tre in città abusa di farmaci occidentali per ogni minuzia.
Il Congo è stato la culla di una mitologia complessa e poetica, ispirata al rispetto della natura e alla connessione tra le persone. Oggi il 90% delle persone pensa che Dio abbia la pelle bianca e che l’Antico Testamento sia una specie di regolamento da rispettare alla lettera – comprese le leggi fuori dal tempo che vogliono la moglie sottomessa e la disabilità una condanna.
La cancellazione della storia popolare, della tradizione comunitaria, dei fili tramandati di generazione in generazione è il modo più rapido per rendere un’intera popolazione tragicamente esposta all’invasione, tanto culturale quanto economica e sociale.
Perdere i pilastri del proprio vivere insieme significa divenire monchi del midollo stesso di quanto chiamiamo “appartenenza”. E perdere l’appartenenza alla propria storia rende raminghi nella ricerca di un nuovo legame culturale. In questo nomadismo imposto nasce la possibilità di aggrapparsi alla prima alternativa proposta, al primo fazzoletto di terra che millanta certezza e benedizione eterna.
La cultura europea ha imposto il proprio modello così; scambiando i simboli della spiritualità locale con sacchi di farina grezza; ostracizzando le autorità che garantivano la prosecuzione della storia orale; instillando il dubbio che le radici della memoria tribale fossero inquinate e violente. Per fare questo sono serviti etnografi, missionari e psicologici sociali. I militari sono venuti dopo, come ultima onda buttata lì a concludere definitivamente un modello di sottomissione già abbondantemente avviato.
Il risultato è che oggi Papa Jean, un congolese mediamente istruito di cinquant’anni, disconosca senza remore la propria storia popolare, la chiami “stregoneria”, maledizione, e trovi in un racconto figlio di una terra lontana e sconosciuta l’unica radice possibile alla propria storia.
Guardando le stelle vuote di parole della notte congolese ho trovate il simbolo di una violenza silenziosa nata centocinquant’anni fa e viva ancora. Una violenza senza voce, lenta, attraente, capace di rubare un’anima lunga millenni e lasciare dietro di sé il simulacro freddo di un riflesso lontano e scolorito che non ha nulla dei luoghi a cui appartiene.
In questa storia violenta c’è la nostra, e tutta l’incapace di riconoscere la semplice bellezza della diversità.