Ci sono romanzi che scivolano via in un pomeriggio eppure lasciano rivoli di pensieri impressi sulla pelle per settimane. “52 Hertz – Manuale d’istruzioni per anima danneggiata” è sicuramente uno di questi. Un “manuale” breve con le forme di una raccolta di storie dal chiaro gusto autobiografico e la profondità psicologica di un romanzo di formazione (al contrario).
Attraverso una penna leggera, a tratti ironica fino al surreale, Elena Contenta Patacchini riesce nel difficile compito di srotolare la paletta delle proprie sensazioni in un climax a cascata senza lasciare andare mai il contatto con chi legge. La trama, quotidiana, onirica, altalenante, tiene incollati alle pagine nella ricerca di un finale di quiete che non arriva mai del tutto. I personaggi, fantastici e reali come gli occhi di chi li vive, lasciano il sapore agrodolce di una compagnia necessaria anche dopo l’ultima pagina.
Ho incontrato Elena, 30 anni, originaria di un paese del profondo Abruzzo di nome Penne (“si convince, nomen omen, che la penna è il suo strumento“) ma ormai visceralmente milanese da qualche anno (“città che la rapisce e di cui inizia a raccontare piccoli dettagli e peculiari manie“), in vista del secondo appuntamento con il “Festival delle Cose Belle #StaiACasaEdition” di Aware in cui leggerà brani tratti dal romanzo e dal suo blog Patatràcchini.
Tra racconti su avvistamenti impossibili, citazioni di Flaiano e dichiarazioni d’amore (sofferto) verso i suoi luoghi (reali e non), Elena ci lascia scoprire il sapore squisitamente umano di ricercarsi senza mai trovarsi. E la consapevolezza che qualcosa di tutto questo resta anche oltre l’ultima pagina:
“Ci tengo a dire, infine, che quando si scrive – ma anche e soprattutto quando si legge – si resiste (e tanto) a quella invero fastidiosa condizione per cui si ha una sola vita da vivere. E io questo lo trovo incantevole”.
Elena, “52 Hertz – Manuale d’istruzioni per anima danneggiata” mi ha dato l’impressione di essere (o poter essere) tante cose: un romanzo autobiografico breve, un diario a tratti onirico, un insieme di racconti che potrebbero avere vita anche autonoma. A te cosa sembra oggi? Qual è stato il processo di creazione, unico e lineare così come lo leggiamo oppure hai cucito insieme storie in tempi diversi e ne hai reso un collage romanzato?
A due anni dalla fine dei lavori, posso dire che per me, oggi, 52 hertz è sicuramente un romanzo breve costruito per episodi (gli undici capitoli), i quali certamente hanno una loro autonomia, pur essendo tasselli fondamentali della storia generale. Il processo – che certamente ha trovato le sue incerte origini nella narrazione disordinata di disavventure autobiografiche – è concretamente partito con la nascita dei personaggi, in particolare la Tenebra e i Morti, ed è stato solo quando questi personaggi sono cresciuti che anche la protagonista ha preso le distanze dalla mia vita e ha iniziato a compiere le sue scelte in autonomia. Un bellissimo trauma. Molte delle pagine del romanzo, comunque, raccolgono storie sparse che ho collezionato negli anni e che hanno poi trovato spazio in un questo strano contenitore di quelli che ci terrei a definire “beni di sconforto”.
I personaggi sono i simboli ricorrenti della trama. Facile percepire il significato della Tenebra, più difficile quello dei Morti. Ce ne parli?
I Morti, più che altro, sono morti e sono personaggi che fanno quello che possono, che se uno ci pensa non è un gran che, però alla fine se uno ci pensa, dico se ci pensa davvero, in realtà è proprio tanto. Sono aiutanti strani perché fondamentalmente sono impotenti, sono disastrati, sono pieni di difetti. Credo che siano, però, allo stesso tempo figure senza le quali la protagonista non potrebbe vivere e lo dico fuor di metafora: oltre a rappresentare qualcosa del presente, rappresentano certamente anche qualcosa del passato. Qualcosa che non c’è più e proprio per questo c’è ancora. 52 hertz è pieno di assenze presenti.
In ogni capitolo troviamo la compagnia di un autore o autrice divers*, compagni di cammino e (s)ventura: Buzzati, Flaiano, Manganelli…Come sono finiti tra le tue pagine e cosa ti ha guidato nella scelta delle figure? Semplice gusto artistico o qualcosa in più?
Tutti, e giustamente, guardano agli autor*. In realtà l’introduzione è stata più che altro fatta in riferimento alle loro opere. Prima di tutto, le opere (e gli autori) citate all’inizio di ogni capitolo sono state inserite come elementi che portano avanti il tempo che scorre. La protagonista impiega il tempo del capitolo a leggere quella specifica opera. Non ci sono poi obbligatori riferimenti stilistici o tematici tra l’opera addotta e il racconto del capitolo, ma qualcosa sicuramente li lega. Un’eco. Un’eredità, una volontà forte e precisa di portare avanti un certo modo di fare, un certo modo di pensare, un certo modo di interpretare il linguaggio, la lingua, la scrittura. Inoltre, il “percorso” creato rappresenta un’ottima scaletta di una parte importante della mia formazione letteraria.
Milano è sfondo e cuore delle vicende. Che sensazioni provi verso la città che vivi? Sono cambiate rispetto al tempo in cui hai scritto “52 Hertz”?
Milano è una città che ho sempre amato e che amo molto anche oggi. Di Milano mi piacciono molte cose, ma quella che preferisco – oltre alla linea verde fondamentale – è la sua riservatissima poesia. Milano è il risultato enorme di fatti piccolissimi, un disordine esattissimo, un modo di saperci essere. Quello che ho sempre trovato maniacale, tra le sue strade, è questo approccio del tutto particolare al tempo, alla dimensione, alla possibilità. Milano è molte cose e ti dà l’opportunità, a tua volta, di essere quello che vuoi, di esserci o di sparire, di partecipare o di rimanere solo a guardare, senza giudicarti – in fin dei conti – mai e poi mai. È un posto che ho sempre amato perché mi ha fatto fare (e continua a farmi fare) incontri incredibili. C’è un’umanità incredibile in quella città.
Hai origini abruzzesi, come noi che abbiamo fondato Aware. Cosa prendi delle tue radici e fai cadere in quello che scrivi? Condividi l’espressione di Manganelli: l’”Abruzzo è una grande fabbrica di silenzi”?
Come direbbe Flaiano, “Amico, dell’Abruzzo conosco poco: quel poco che ho nel sangue”. Io ho un legame molto particolare con la mia terra. Un odi et amo abbastanza irrisolvibile. L’ho odiata e tanto, soprattutto perché ci ho sofferto tanto dentro, ma proprio in virtù di questa condivisa sofferenza, trovo che oggi sia un posto magico per me, un luogo sacro dove andare a ricercare proprio il senso delle forme e dei contenuti che poi vado mettendo assieme. L’Abruzzo certamente conserva il mio segreto e penso che come ogni segreto sia muto. Perciò, certamente Manganelli aveva ragione. Ma d’altronde, coglierò occasione per dire che Manganelli ha sempre ragione. Una volta, a proposito del noto abruzzese Silone e della sua opera Fontamara, ebbe a dire: “Insomma, a me pare un po’ più abruzzese del ragionevole”.
Personalmente, negli ultimi tempi, hai vissuto (nuove) vicende professionali che si avvicinano molto a quelle descritte nel romanzo: lasciare un luogo di lavoro “sicuro” per studiare drammaturgia e dedicarti alla scrittura. Senti di continuare ad essere legata alla protagonista del romanzo? Come vivi il rapporto con il tuo alter ego di penna, c’è distanza o ne avverti una influenza nella vita fuori dalle pagine?
Come ho detto all’inizio, io e la protagonista del romanzo ci siamo separate molto prima che il libro finisse di esser scritto e non ci siamo più ritrovate come prima. Lei da un po’ fa la sua vita, va in giro, conosce gente, si fa amare ed odiare, soffre, è felice. E io uguale, ma per conto mio. Ho accettato che devo fare a meno della sua compagnia, ma sono felice per lei. Il cambiamento, in generale, è una componente fondamentale nella mia vita e devo ammettere che sono molto felice di aver avuto la forza per cambiare nuovamente e cominciare questo assurdo giro nel mondo del teatro. L’esperienza di scrittura, soprattutto, è molto cambiata e trovo interessante occuparmi di storie e personaggi che sono distantissimi da me. Chissà come andrà a finire.
Nelle premesse del romanzo racconti l’incredibile storia dell’unica balena al mondo che comunica ad una frequenza diversa dalle altre e per questo non può essere ascoltata né tantomeno riesce a farsi ascoltare. Come si sente la “balena 52 hertz” in questi tempi di quarantena? Credi che questi giorni possano essere utili per trovare forme di comunicazione diverse, accessibili anche a lei?
A dire la verità, ci ho pensato tanto a lei in questo periodo di mio solitario isolamento. Mi è venuta in mente tante volte proprio perché anche prima della quarantena avevo personalmente vissuto stati di reclusione simile e sicuramente lei ne aveva vissuto uno lunghissimo tutto suo. Pensandola però, non mi è tanto venuto in mente di cercare nuovi modi per comunicare, tanto meno ho pensato alla disperazione di certi vuoti, quanto – e ancora una volta – mi sono ricordata del fatto che momenti in incomunicabilità totale, che momenti di profondissimo silenzio, che fasi di vita in cui non accade assolutamente niente (o così sembra) sono in realtà delle strane benedizioni perché è spesso lì dentro, in quello strano temporaneo mondo che si dà davvero occasione a parti di noi stessi di evolvere.
La rubrica di Aware dedicata all’arte si chiama “Arte resistente”. Esiste una carica “resistente” in quello che scrivi? Resistente rispetto a cosa?
Resistente è un aggettivo che un po’ mi affascina (mi affascina tanto) e allo stesso tempo un po’, però, mi fa paura. Ho sempre paura perché credo che “resistere” sia davvero la cosa più bella e difficile del mondo e, quindi, da brava nevrotica ed eccellente paranoica penso sempre di non essere all’altezza di farlo davvero, neanche per scherzo. Sicuramente però nei miei tentativi e materiali c’è un certo tasso di resistenza interna legato a una mia idea precisa rispetto alla scrittura, che non è mai solo uno strumento di intrattenimento, che non è mai solo un “prodotto” pensato perché qualcuno ne debba “agevolmente” fruire. Scrivere, inoltre, è in sé un atto di resistenza, se non altro perché è un esercizio molto molto faticoso. Non smetto di ripetere che raccontare una storia è una delle cose più difficili e allo stesso tempo naturali che capiti di fare a un essere umano. Ci tengo a dire, infine, che quando si scrive – ma anche e soprattutto quando si legge – si resiste (e tanto) a quella invero fastidiosa condizione per cui si ha una sola vita da vivere. E io questo lo trovo incantevole.
A cosa stai lavorando in questo periodo di stasi generale? Possiamo aspettarci nuove avventure della balena solitaria?
Sto lavorando più che altro per il teatro, provando a scrivere materiali che possano andare poi in scena. Ma ho iniziato anche la primissima stesura di un secondo romanzo. Si parlerà ancora di Milano, ma questa volta ha preso forza la mia ossessione per i mezzi pubblici, quindi si parlerà di tram, e di un tram in particolare. Perciò, temo, che questa volta tra Piola e Corso Buenos Aires non ci sarà posto per la balenina del mio cuore. Quello che penso è che sia passata a dire a qualcosa di importante, e ora l’ha detto. Bisogna pure farla andare libera nel mondo a fare le sue cose.
A proposito, sai che fine ha fatto quella vera? Avvistamenti?
Avvistata (anzi avvertita) totalmente a caso per la prima volta nel 1989 da William Watkins (un biologo marino americano) e seguita dallo stesso per tantissimi anni con immenso amore, la balena dei 52 hertz è stata avvistata l’ultima volta nel 2012. Si pensa che sia morta. Solo per dovere di cronaca, Leonardo Di Caprio aveva iniziato a seguirla e studiarla con l’intenzione di produrre un documentario. La lavorazione si è interrotta proprio nel 2012 perché nessuno è più riuscito a individuarla nell’Oceano.